Barbara Bedin, Colline

Vidi la guerra per la prima volta nell’estate del ’95, mi venne incontro nel corpo di una bambina di quattro anni. Era un giorno di luglio, il caldo inumidiva la pelle e le etichette dei nostri abiti mentivano sulle percentuali di acrilico. Il furgone aveva arrancato nell’ultimo tratto, quando la pendenza si era fatta severa, e arrivare dall’altra parte della collina sembrava impossibile senza sacrificare pezzi di carrozzeria lungo la strada, ma alla fine avevamo scavallato. Sul fondo del prato avevamo visto la caserma che dominava la valle con l’arroganza di chi aveva avuto il potere e l’aveva perso. Fermato il motore, eravamo scesi, alcuni anziani erano usciti a controllare chi fosse arrivato e, quando avevano capito, avevano chiamato le donne. I bambini li avevano preceduti, circondando il furgone con urla e sorrisi senza scampo. Goranka mi aveva puntato subito, avevo sentito i suoi occhi sulla schiena, pungevano. Non mi avrebbe mollato più.

«Madonna, fa sempre così caldo qui?» chiesi a Marco.
«Abituati. Di notte, invece, si muore di freddo».
«Ma abbiamo i sacchi a pelo, no?».
«Ci saranno notti in cui non basteranno».
«Sei il solito esagerato, neanche dormissimo all’aperto».
«Non mi riferivo all’escursione termica, ma lo capirai da sola».
«Va beh».
«E comunque, fai attenzione alle esclamazioni: qua ci sono più religioni che stanze».

Che Marco fosse nervoso l’avevo capito dal fatto che negli ultimi venti chilometri non mi aveva più rivolto la parola. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, oltre la strada, e batteva il piede destro facendo muovere la gamba su e giù, al ritmo di una musica che sentiva solo lui.
Eravamo amici dalle superiori. Ai tempi Marco aveva capelli corti, basette lunghe e l’andatura di chi è consapevole di poter fare qualcosa di grande, ma non ne ha voglia. Finite le superiori c’eravamo persi di vista, io avevo iniziato Economia a Venezia, lui Psicologia a Padova. Ci eravamo ritrovati soltanto sei mesi prima. Uscivo dal discount dove ogni mese andavo a fare la spesa. Marco era davanti alle casse con un altro ragazzo, dietro un tavolino al quale era appesa una locandina con la foto dei resti di una città e la scritta: Poco per te, tanto per loro.

«Cosa fai qui?» gli avevo chiesto.
«Stiamo raccogliendo prodotti da portare nei campi profughi».
«Cosa serve?».
«Tutto», mi aveva risposto sorridendo, «qualsiasi cosa possa sopportare un viaggio lungo, dentro un furgone bollente, senza marcire».
«Sarete ancora qui domani? Credo di avere preso poco da lasciarti ora».
«Saremo alla Despar di Via Mazzini, ma non importa, lascia quello che puoi».

Quelli che dicono Torno domani non tornavano mai, me lo avrebbe spiegato nei mesi successivi. Ma io il giorno dopo c’ero andata davvero, davanti alla Despar, con due cartoni pieni zeppi: avevo comprato di tutto, in particolare riso e caffè.

«È strano, sai» mi aveva detto Marco, «come facevi a sapere che proprio queste erano le cose più richieste?».
«Perché il riso riempie la pancia, il caffè le ore» gli avevo risposto. Mi aveva guardato a lungo, poi aveva fatto quello che, avrei scoperto solo più tardi, non faceva mai: si era fidato.
«Senti, ci troviamo martedì sera all’oratorio di via Aosta per organizzare la prossima spedizione. Se ti va di passare saremo là dalle nove».

Ci avevo pensato tutto il martedì, avevo preso il calendario, l’avevo sfogliato lasciando scivolare le stagioni tra le dita, e alle nove ero in via Aosta. Lui si era stupito che ci fossi andata davvero, poi mi aveva preso la mano, le dita avevano sfiorato le linee del palmo; ricordo di aver pensato quanto avrei voluto, un domani, che almeno una di quelle linee parlasse di me.
Da febbraio andammo in via Aosta due volte la settimana, per organizzare le attività che avremmo proposto al campo, la distribuzione dei generi alimentari, i vestiti, i turni di chi avrebbe fatto cosa e con chi. Sulla cartina appesa segnavamo rotte di salvezza: pensavamo la loro, avremmo scoperto la nostra. A serata finita, raccoglievamo mozziconi e bicchierini vuoti di caffè. Mi sentivo strana, all’altezza dello stomaco, contratto da emozioni diverse, felicità, malinconia e qualcos’altro, un dolore dolce, cui non sapevo dare un nome, ma che faceva più male di tutto.

«Vorrei portarti in un posto» mi disse Marco una sera di giugno versando del caffè in un thermos e aggiungendo della grappa.
«Dove?».
«Alla collina delle stelle».

Non saprei dire oggi quante volte mi portò lassù prima di partire. Ricordo che stavamo con il fiato sospeso finché durava l’ascesa, sperando che il motore reggesse l’affanno dell’impennata. Erano minuti di ansia, quella di quando si sa dove si sta andando e perché. Poi il crinale finiva e la tensione sfiatava sullo spiazzo. In fondo arrivavamo quasi in folle, spinti dalla piccola pendenza; giravamo la chiave tra i due platani e finalmente i nostri occhi si posavano. C’erano tempi morti fatti di sicure da abbassare, leve da trovare al chiaro di luna che non si trovavano mai. Ridevamo ed era una risata bella, leggera. L’ultima sera, prima di partire, il nostro amore era scivolato fuori dall’abitacolo, si era abbandonato su un asciugamano steso sul prato e si era consumato sotto i morsi delle zanzare. A ogni rumore smettevamo di respirare, ci guardavamo negli occhi e quegli occhi dicevano: «È il vento», e tornavano a chiudersi per poi riaprirsi piano, alla fine, a guardare le stelle posarsi leggere sulla pelle.
Non so perché pensavo a quell’ultima sera alla collina mentre scaricavamo gli scatoloni che avevamo preparato nei mesi precedenti. I pacchi erano uno per ogni nucleo familiare, tutti della stessa misura, ma loro non erano tutti uguali: diversi per numero, etnia, religione; divisi per sesso, età, dolore inferto e ricevuto. Un ragazzo di quattordici anni non mangia come un anziano di settanta, ma quella differenza, nel pacco, non si vedeva. Non c’era segnata sul foglio bianco attaccato al cartone. I fogli erano identici, lo stesso foglio attaccato su tutti i cartoni uguali, ma loro erano tutti diversi. C’era chi era lì dall’inizio, chi era arrivato il giorno prima, ma la fame di chi aveva visto solo un tramonto al campo era diversa da quella di chi, quel tramonto, l’aveva piantato negli occhi con chiodi arrugginiti. Nel preparare gli scatoloni, di quella differenza, non c’era dato di tener conto. E così il pacco rappresentava lo stesso cubo d’illusioni nella geometria delle anime del campo. Finita la distribuzione, tutti avevano preso quanto gli spettava e si erano rintanati nei propri spazi. Bisognava aprire di nascosto da occhi indiscreti, di disuguaglianze si nutrivano i rancori.
Goranka mi stringeva la mano e mi tirava. «Idemo, idemo» diceva ridendo. Cercai Marco con lo sguardo, mi fece un cenno per confermarmi che sapeva dove mi avrebbe portato. Goranka mi trascinò nella caserma. Al piano terra c’erano quattro stanze piccole e un bagno di pertinenza di quelli che una volta erano stati gli uffici, nessuna porta, sedie accatastate lungo il corridoio, armadi di metallo senza ante con i ripiani occupati da teli cerati, muri coperti di muffa e intonaco scrostato. Salimmo la rampa centrale, al primo piano, su entrambi i lati, si aprivano due stanzoni enormi. Non so come mai il mio sguardo volò in alto prima di entrare, prima che le mie orecchie fossero otturate dai rumori, prima che l’odore del vivere da profughi arrivasse dentro le mie narici misto a quello del caffè. Goranka mi tirava, mi trovai dentro un alveare gigantesco, un reticolo di vani separati da pannelli di compensato, cartoni, reti di plastica bianche e arancioni: «Doci vidjeti», ripeteva. Sembrava di stare dentro un labirinto, ma dentro quel suk a cielo coperto lei si muoveva sicura. Dopo un tempo indefinito, si era fermata in un punto preciso, davanti a un lenzuolo annodato su un manico di scopa, messo in orizzontale, a meno di due metri da terra. «Ovdje», qui, aveva indicato prima di sfilarsi le scarpe e scostare il lenzuolo. Mentre percorrevamo il labirinto, avevo dovuto concentrarmi per schivare tutte le scarpe abbandonate lungo il percorso, così me le ero tolte anch’io prima di infilare la testa oltre il telo. Avevo appoggiato il pacco a terra, sopra una trapunta colorata e guardato la donna che mi stava di fronte, le diedi la mano e lei la strinse così forte che mi sembrò impossibile appartenesse a una persona così magra, poi allungò le labbra e vidi quanto può marcire un sorriso. Abbassò il capo, s’indicò il petto, Ana disse, io feci lo stesso: Sara, pronunciai. Aveva sei anni più di me, sembravano venti. Goranka saltava elettrizzata intorno al pacco come se fosse Natale. Ne estraeva il contenuto con la cura che si riserva a un tesoro, ma sorpresa e felicità sfuggivano a quel controllo forzato e a tratti rimbalzavano sul materasso poggiato sul pavimento. Ana aveva messo un pentolino d’acqua su un fornelletto da campo, aveva aperto uno dei due pacchi di caffè solubile, aveva tirato fuori due tazzine e le aveva appoggiate su un pezzo di lamiera. Quando l’acqua bollì, ci versò dentro due cucchiaini di caffè e si sedette sul materasso di fronte a me, per terra. Bevemmo il caffè piano, in silenzio, guardando la felicità di Goranka esplodere rumorosa quando estrasse un coniglio di peluche dal fondo del pacco e anche mentre lo lanciava in aria per poi riprenderlo, prima che toccasse terra. Dopo la seconda tazza di caffè cercai di spiegare che dovevo andare. Ana annuì, aveva conservato uno sguardo dolce che stonava sui lineamenti induriti del viso, disse qualcosa a Goranka, la quale mi prese nuovamente la mano, mi tirò fuori e mi portò fino alla rampa della scala.

«Sono stata da Ana» dissi a Marco non appena lo raggiunsi.
«È arrivata qua un anno fa» rispose lui a una domanda che non avevo fatto: «la sua famiglia era di Olovo, un piccolo comune sopra Sarajevo».
«Era?».
«Li hanno fucilati tutti. I corpi di suo padre, suo marito e suo cognato erano dentro una buca nell’orto, probabilmente gliel’hanno fatta scavare prima di ucciderli. Sua sorella, la mamma di Goranka, era nuda, legata di spalle a un albero nel bosco dietro casa; Ana l’ha riconosciuta da una voglia sulla gamba».
«E Goranka?»
«Si era nascosta nel fienile, dentro la porticina della botte vuota, dove mettevano il mosto. Ci hanno messo un giorno per tirarla fuori».
«Cristo Santo».
«Lo sapevi, no? Sapevi, cosa avresti trovato». Della dolcezza con cui mi parlava sulla collina delle stelle non c’era più traccia.
«Sì, però…».
«Lo so. La prima volta che lo vedi, il mostro, è peggio delle altre. Adesso vai in cucina, sei di corvée per tutta la settimana».
«Tu non vieni? »
«Io vado con Zòran a distribuire i pacchi agli anziani che non possono uscire».
«Marco?».
«Dimmi».
«Niente». Mi chiedevo se quello con cui stavo parlando era la stessa persona che leccava gocce di caffè freddo sulla mia schiena solo alcune notti prima, che mi guardava sempre come se mi vedesse per la prima volta. «Comunque ho capito quello che intendevi quando insistevi perché ci fosse il caffè in ogni pacco».
«Ne riparliamo stanotte, tanto non riuscirai a dormire e non sarà per colpa del caffè».
«Ok, vado».

Iniziai ad appuntare su un taccuino il numero dei caffè presi, segnando, vicino a ognuno, i nomi delle persone con cui mi ero fermata. Nessun accenno alle loro storie, volevo soltanto ricordarne i nomi e associarli a un viso. Vedendomi consumare così spesso del caffè, in molte si offrivano di leggerne i fondi, se mi avesse fatto piacere.
«Hanno una vera e propria mania» dissi a Marco, «non posso alzarmi senza che mi abbiano predetto il futuro. Meno male che sono ottimiste!».
«Non è una mania» rispose lui. «È un modo per sopravvivere, immaginare storie possibili, che loro non vivranno mai».

Sono passati molti anni da quando sono tornata, non so cosa ne sia stato degli anziani, delle giovani donne e dei bambini. Non so nulla di Goranka. Marco l’ho rivisto poche volte, e abbiamo fatto finta di nulla, senza nessun cenno alla collina delle stelle, né ai profughi: al massimo, abbiamo parlato dei tempi del liceo, il tempo di una birra, ma so che da quel viaggio non siamo mai tornati. Il taccuino dei caffè lo conservo ancora, da qualche parte, ma dubito che lo cercherò mai.

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