Claudia Petrucci, La vita ti raggiunge ovunque

Arrivederci Italia è un rettangolo ritagliato sotto al profilo pulito della St. Joseph Church: nella chiesa, in una trasfusione ininterrotta, arrivano bare e parenti di tutte le forme. Il Cancer Care Centre è enorme e fermo dall’altra parte della strada; lì dentro ci sono luci accese tutta la notte e sempre qualcosa che ci cammina sotto – una collezione di fronti e capelli, cuffiette azzurre, punte di fiori recisi. Si trovano, tutt’intorno, poco lontano: lo stadio, la stazione, il barber shop, il supermercato; se si allarga il perimetro: il parco, i grattacieli del CBD, il fiume; con il coraggio necessario a una visione più ampia: il deserto che avanza e stringe due milioni di persone tra sé e l’Oceano Indiano. È un abbraccio minaccioso, una spinta, ma non te ne accorgi di essere circondato dal nulla, soprattutto se lavori ad Arrivederci Italia. Ogni tanto provo comunque quella sensazione acida, cioè di non essere niente di più di un pezzo d’arredo importato, già pronto per la dismissione; succede a fine serata, quando l’olio da frittura inizia a sciogliersi sulle superfici – quindi su di me, sulla mia faccia.
In questo emisfero è un’estate secca ad alte temperature e i turni sono di undici, dodici ore. Vado affinando il mio talento per la prostituzione ed emano luminosi sorrisi, mi lascio andare a battute nel mio inglese sempre più ardito; i clienti ridono sul serio, o almeno così mi piace pensare, e poi dicono che il cibo è tutto “bello”, per dire che è “buono”; io ringrazio con un mezzo inchino, loro godono del mio accento esotico, e nel mentre mi perdo.
Dal mio arrivo esisto in due entità fenomeniche: quello che succede al mio corpo fuori da me e quello che succede al mio corpo dentro di me. I due mondi sono slegati, imboccano bivi opposti, per cui io sono qui ma anche sempre in un altro luogo – per esempio e soprattutto in quel pomeriggio a casa dei tuoi, nella doccia, tu che dal vetro mi guardavi senza parlare e io che sapevo di non avere più niente addosso, nemmeno un pezzo della mia stessa pelle.
Ci sono stati dei momenti in cui ho dimenticato; l’ultimo, una settimana fa, un lungo giorno di buio complesso; il primo, quando ho realizzato cos’è un Boeing 747; nell’intervallo tra i due: tre mesi, una concatenazione di eventi, arrivare così lontano che poi l’unica cosa che resta è ricominciare da zero, e perciò mi chiedo, incessantemente, che cosa dovrei fare adesso. Persevero nel sovrapporti i corpi altrui, le suppellettili, così di te non rimane altro che un segmento del tuo profilo.
Vorrei raccontarti. A volte lo faccio mentre cammino, ho le cuffie alle orecchie, sono in un treno così piccolo e così diverso dalla Metro Rossa che prendevamo insieme; ti parlo senza muovere la bocca, come parlavamo spesso noi due, tu sei appesa a una maniglia e stai ancora bene. Solo per una frazione: sono le partiture che ti cadono dalle mani, è il crepuscolo alla fine del corso, è il chiostro invaso dalle matricole; siamo noi che vogliamo distinguerci nel fiotto ormonale delle prime sessioni d’esame. Mentre tu mi convinci dell’amore immenso di Astolfo, come se poi lo avessi conosciuto davvero, come se ti avesse fatto una confessione in sogno, io ti ascolto e insieme ti spiego di questo futuro.
In questo futuro-presente il sole è così forte che i fuochi divampano sulle colline, si sente odore di bruciato dentro i capelli, sotto le unghie. Il sole mi costringe a esistere e al tempo stesso mi appiattisce, spazza via la mia ombra – cioè te. Sotto di lui stiamo, insieme, in una folla di vittime della mancanza. Chi non sta ancora soffrendo soffrirà a breve, tutti gli altri annegano già nello stato intermedio di una cosa divisa in più pezzi, un arto slogato teso verso l’origine, lo stomaco appresso alle ventiquattr’ore del giorno, e poi la parte più orrenda di noi: i ricordi. La mancanza si fa spazio in umorismi storici, costruiti con gli amici che si sono lasciati a casa, che ci sentiamo costretti a spiegare, a fingere di capire; la mancanza si trova anche: nelle nori essiccate che il lavapiatti malese mi infila in una tasca, nel portoghese lento della food runner che chiama la madre a fine turno, in me che sto ad ascoltarla, ricomincio a fumare, smetto di fumare. L’assenza si infila negli accessori tutti diversi, borse che hanno attraversato meridiani e infranto fusi orari, etichette sconosciute, calligrafie e bracciali e foto che scorrono orizzontali sugli schermi dei cellulari.
È curioso, ogni tanto mi sembra di vedere, nell’ammasso di materia, i resti del nostro appartamento in Via Brioschi, quindi il tuo collutorio, le Conferenze di Bakunin sul comodino, la lampada a cera liquida; proprio in quella dimensione tutta oggetti tu ti eri fatta meno presente, io avevo iniziato a smarrirti. No, grazie, ho già cenato. Sì, magari vi raggiungo più tardi. Scusa, ho dimenticato di reinserire la suoneria. E via così, in un ripetersi di risposte automatiche, composte con un sorriso gentile. Ti si vedeva sempre meno, a casa, nonostante tu ci fossi sempre più spesso, a casa, ma nella tua stanza, o chiusa in bagno, nella vasca – dove lasciavi i tuoi resti, una lingua d’acqua e un capello scuro annegato per metà nella bocca dello scarico.
Quando non riesco a dormire, seguo una traccia: parte dal disegno della tua schiena, inciampa nelle lame affilate delle tue scapole ma arriva sempre allo stesso snodo, non riesco a sfuggirgli. È gennaio del terzo anno, ho la certezza che lo ricordi anche tu. Barcolliamo nei dintorni di Porta Romana. Torniamo da una rappresentazione teatrale, io rido forte e qualcun altro mi accompagna, non tu, che tieni le mani sprofondate in tasca e ti allontani per poi ritornare vicina, un palloncino sgonfio in agonia. Il freddo morde e a casa i letti sono gelidi come quelli degli appartamenti disabitati. Tu non bussi alla porta della mia stanza, mi scivoli accanto, di nuovo dopo tanto tempo. «Sono stanca» dici. Io so che non parli del tuo corpo ma di qualcosa di più spaventoso e profondo; non ho altra scelta che lasciarti fare. Capisci? Non ho altra scelta.
Il mio capo dice che in me c’è qualcosa di storto, è quindi probabile che sia capace di scorgere la mia scissione interna. Una notte mi ha stretto contro la cella frigorifera, lo abbiamo fatto nella cucina deserta. Gli è rimasto addosso un po’ del mio sangue, si è ripulito, mi ha portato a comprare donuts in un 7-Eleven. Lui è pieno di domande – hai mai giocato in high stakes? Secondo te perché cercano sempre chef in South Yarra? Quanto ti piace così? Un venerdì pomeriggio, nella sua macchina, nei suoi interrogativi, c’era anche il tuo: «Potresti farlo per me, che non ne ho il coraggio?». D’un tratto avevo solo voglia di vomitare e lui ha detto che è normale, che gli capita ogni weekend, che questo è un lavoro che fa impazzire le persone, tutte, mica solo noi due, che quindi siamo costretti ad aiutarci. Ci siamo aiutati in magazzino, cioè in un garage tre metri per tre, con la sua pipa: l’effetto è stato potente e lunghissimo; ci siamo aiutati ancora, siamo sopravvissuti al weekend. Tu c’eri comunque ma eri un bagliore stupendo e caldo, come quel giorno a casa dei tuoi, nella doccia. All’alba di lunedì l’organismo ha iniziato a cedere, siamo rientrati dalla spiaggia; prima di dormire, lui ha scaldato con la fiamma il collo della pipa, mi ha sorriso: «We’re chasing the ghost» ha detto, con un accento lontano quattordicimila chilometri da questo punto esatto, in mezzo al deserto. Il sonno, poi, è arrivato senza preavviso.
«Stiamo inseguendo il fantasma».
Al risveglio del lunedì sera mi è sembrato di vedere il tuo Vicodin sul comodino. Invece no, era una delle mie scarpe, con una forma tutta diversa, con i colori così lontani dal flacone di Vic, come lo chiamavi tu. Ti detestavo, quando lo facevi – non c’era nessun comodino ma solo il pavimento, lo guardavo dal divano. Ero in ogni caso di nuovo in via Brioschi. Aveva iniziato a nevicare e mi ripetevo che era solo una fase down, solo un periodo, poi tutto sarebbe finito. Avevo ripreso a fumare, fumavo soprattutto durante e dopo averti lavato. Ti adagiavo nella vasca, ti insaponavo, tu sembravi serena, mi guardavi, dicevi che ti stava venendo fame per farmi felice, qualche volta ridevi e mentivi promettendo di rimetterti sui libri il giorno dopo. Io non ti credevo, ma preferivo fingere invece di pensare a quello di cui parlavamo per il resto del tempo. Avevo già capito che mi stavi guidando con una freddezza sapiente, ma non ero in grado di afferrare il tuo obiettivo: sfuggiva sempre, come te sotto la coperta, quando tentavo di convincerti che avresti dovuto smetterla di abbandonarti. Che dovevi per forza trovare un motivo. Per camminare, per alzarti. Nonostante stesse iniziando a diventare difficile anche per me. E tu eri furba, te ne eri accorta: non c’era più via di scampo.
Il tuo fantasma aveva la pelle bianchissima il giorno in cui ti stavo lavando e mi avevi interrotto. «Io non ne sono capace» avevi detto. «Non ne sono mai stata capace e, ogni giorno di più, mi rendo conto che non è una cosa che posso imparare. Voglio dire, è come se mi mancasse un pezzo. È un handicap. Questa specie di autismo degenerativo che mi porta a essere sempre meno in grado, sempre più ammalata. Non ci riesco. Non è che uno deve riuscirci per forza, non è che vengono al mondo solo quelli che ce la possono fare. Credo che alcuni nascano già incapaci. È come una menomazione, se ci pensi. È che quel che resta di umano, in me, si ribella. Non ne ho il coraggio. Ci ho provato. Lo vedi, ci provo, ci provo a smetterla, ma non ci riesco. Così quando vorrei fare un passo avanti e scendere sui binari, mi ferma. E quando vorrei cadere, mi frena. E sono più di vent’anni che sono immobile e non riesco. Non riesco a non vivere, non riesco a vivere. Devi avere pietà di me. Tu mi vuoi bene, e mi ami, e potresti. Potresti farlo per me, che non ne ho il coraggio?».
Dal principio, ora lo so, volevi portarmi lì. A guardarti, nuda e livida nella vasca, e a desiderare con tutto il mio essere di accontentarti. Perché dicevi la verità. Perché era vero.
Mi avevi permesso di scappare. Mi avevi permesso di abbandonarti a casa, da sola. Io ne ho la certezza, tu avevi detto di volere un appartamento tuo, un giorno. Di voler rileggere Le notti bianche e laurearti, di voler mangiare solo torte per un mese e poi dimagrire un miliardo di volte. Tu eri stata viva, indistinguibile, e non avresti potuto almeno rassegnarti a una forma di apatia, proprio come tutti noi? Dovevi solo fermarti un passo prima di sprofondare, proprio come tutti noi.
Una settimana dopo, al rientro, ho sperato di trovarti morta, per inedia o digiuno, non per mano mia. Ho sperato in una tragedia con la quale io non avessi niente a che fare, e invece ti avevo trovata ancora lì, seduta, nella vasca da bagno, ad aspettarmi.
Lascia che ti racconti. Avevi gli occhi chiusi, ed eri già dimagrita, ma sembrava respirassi, anzi, sicuramente respiravi, anche se sembravi morta, perché eri più bianca, e avevi le orbite azzurre di un animale acquatico. Avevo immaginato che stessi diventando un pesce, che l’acqua della vasca fosse il mare, e che ti avrebbe trascinato via. Ma così non era, eri diventata un pezzo di carne cruda, e umida, e la vasca una vasca, e l’acqua soltanto acqua di rubinetto, circondata da metri di mattonelle bianche che non finivano mai, mattonelle bianche da riempirci una vita intera.
Da quel giorno, io esisto in due entità. Sono qui, in questo presente specifico e inutile, ma sono anche sempre in un altro luogo, come te, che sei lì ma anche sempre qui a guardarmi. Così, mentre prendo un altro aereo per una destinazione più remota, aspetto che ti svegli e che torni a dirmi di essere stanca, non oggi, ma in generale, ampiamente; di me e delle nostre passioni che non ci consumano, e dei propositi che non si adempiono, ma soprattutto stanca del nostro punto di partenza che invece è stato una fine.

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