Serena Ciriello, Lo scrittoio

Io e Francesca ci siamo anche amati, quando eravamo sposati. Almeno fino a quando ci siamo trasferiti nell’appartamento che suo padre le aveva lasciato in eredità. Sua madre le aveva detto di liberarsene, ma lei prima si era impuntata, poi aveva smesso di parlarle, e poi aveva tirato fuori solite storie, tanto che alla fine la vecchia le aveva addirittura prestato un po’ di soldi per ristrutturarlo. Così raccattammo libri e vestiti e ci trasferimmo lì.
Che casa. Chissà come se l’era procurata, il mio ex suocero. Zona residenziale, ultimo piano, un pianerottolo grande, solo quello, come una camera da letto. Tutto ciò che avevo studiato fino ad allora, i progetti, i fogli arrotolati con i rilievi che mi portavo sempre dietro in tubi neri di plastica, le migliaia di riviste che avevo sfogliato, tutto prendeva finalmente forma davanti ai miei occhi. Giravo per quelle stanze piene di scatoloni e gazzette dello sport vecchie di anni e immaginavo colori, organizzavo spazi, inventavo soluzioni.
Cominciammo subito. Non avevo ancora un lavoro e stavo in casa tutto il giorno: gestivo gli operai, portavo i calcinacci nel secchione in fondo alla strada, sceglievo mobili e finiture, su cui grazie ai miei studi Francesca mi aveva dato carta bianca. Lei lavorava, e quando tornava, nel tardo pomeriggio, appoggiava la borsa e faceva i ritocchi alla vernice che avevo passato in mattinata. «Guarda qua» mi diceva, «non sai tirare una riga dritta». Le rispondevo che non ero io che avevo ridotto quella casa in condizioni pietose. «Ma tu che ne sai» diceva lei, «sei mai stato malato o solo?». Suo padre se l’era cercata, la solitudine, e forse anche la malattia, questo avrei dovuto risponderle, e invece non dicevo niente.
Buttai giù i muri. Non sopportavo le vecchie distinzioni tra zona giorno e zona notte, la casa doveva diventare un open space, dovevamo sentirci liberi di poterci guardare da tutti gli angoli, anche attraverso gli schienali delle sedie. Tolsi tutta la carta da parati, fantasie di fiorellini ingiallite dal fumo delle sigarette. Ne prendevo un lembo per volta, la tiravo giù e il muro faceva un bel respirone. Scelsi una cucina nuova, scalzai dal muro le piastrelle di quella vecchia, smontai i pensili, feci un mucchio e consegnai tutto all’azienda di smaltimento dei rifiuti ingombranti. Misi in uno scatolone tutte le cose che appartenevano al padre di Francesca che trovavo in giro: i Diabolik, una camicia a fiori degli anni settanta, un ritaglio di giornale con Varenne vincitore, una foto della ex moglie con in braccio Francesca bambina che indica davanti a sé, una stecca di Lucky Strike, delle lastre ai polmoni. E poi i mobili. Sedie zoppe, una poltrona sfondata, il tavolo dai polpacci grossi, andarono a finire tutti a parenti nostalgici o da un rigattiere. Tutti tranne uno. «Questo no» mi aveva detto Francesca, «Questo lo teniamo». Era uno scrittoio di legno scuro, ma somigliava più a una credenza. Aveva dei cassetti, ma erano finti, stavano lì solo di facciata. L’unico che si apriva era uno sportello in alto, che tiravi verso il petto e diventava un piano di lavoro. Dentro c’era un ripiano e due cassettini dove ci si potevano mettere giusto un paio di penne. Tutto intorno, fuori e dentro, era decorato, una fantasia di fiori e foglie, ma non un intarsio, era una decalcomania. Il legno era in realtà truciolato, già un po’ scorticato ai bordi. Puzzava di olio di lino, con cui il padre di Francesca aveva pensato bene di lucidarlo, lasciando chiazze di unto sui libri e quaderni che conteneva ancora all’interno. Le chiesi perché avremmo dovuto tenere quel coso grosso, ingombrante e che non c’entrava niente con tutto il resto. Francesca non rispose, lo sistemò accanto al divano e ci passò sopra una mano di spray antipolvere. Era orrendo. Mi sembrava mi guardasse con aria di sfida, gli passai accanto e gli tirai un paio di noccate di avvertimento, ma per quella sera lo lasciai dove stava.
Il giorno dopo, mentre Francesca era a lavoro, lo spinsi fuori, sul pianerottolo. Lo coprii con un telone bianco, una specie di lenzuolo, e ci misi sopra un vaso con una peonia. Adesso la casa respirava di nuovo. Preparai la cena, misi sul fuoco dei bastoncini e preparai un’insalata mista. I bastoncini si attaccarono alla padella, sembravano scorticati, aggiunsi olio ma ottenni solo di bruciare i pezzi di impanatura attaccati. Buttai tutto nel cestino e misi in forno due pizze surgelate. Quando Francesca tornò da lavoro buttò un occhio alla tavola apparecchiata, posò la borsa e uscì sul pianerottolo, rientrò con il lenzuolo in una mano e la peonia nell’altra e li posò a terra, poi tornò a prendere lo scrittoio, lo spinse in casa e lo mise accanto alla finestra. «Che è ‘sta puzza di fritto» mi chiese, io non risposi e lo scrittoio rimase lì, con il suo sguardo torvo.
Invitammo degli amici a cena, la nostra prima cena nella nostra nuova casa, un’inaugurazione coi fiocchi. Comprammo pasta di Gragnano e moscardini, due vaschette di sushi al take away sotto casa e del gelato artigianale, passammo l’aspirapolvere, lo strofinaccio a terra, il piumino sui mobili, Francesca prese delle gerbere rosse e bianche. Era tutto perfetto, profumato e accogliente, solo lui doveva sparire, almeno per una sera, almeno per qualche ora. «Non se ne parla proprio» disse Francesca, a me che insistevo e dicevo che sarebbe stato solo per poco, che poi lo avrei fatto rientrare in casa, lei neanche rispondeva, non mi guardava neppure. Lui era fermo lì, con la sua aria grave e scura, ad ammorbare la fresca luminosità della casa. «Mi fa schifo» le dissi. «Vuoi metterti contro uno scrittoio?» mi chiese Francesca. Dopo tutto quello che avevo fatto per trasformare quella casa che cadeva a pezzi in un appartamento degno di Domus. Non l’avevo solo rimodernata, le avevo tolto l’alone di morte in cui soffocava. Perché quello scrittoio doveva ammorbarci? Perché, dopo tanta assenza in vita, suo padre doveva imporci la sua presenza nella morte?
Presi ed uscii. Feci il giro del palazzo e pensai a Francesca, sempre così elegante, mai un gioiello vistoso, mai un colore sgargiante. Ci eravamo conosciuti quando si era trasferita in città, si era iscritta a una scuola di grafica accanto ad architettura, facevamo colazione tutte le mattine nello stesso bar. Poi lei aveva trovato subito lavoro come illustratrice freelance. Era brava con i fotoritocchi, le amiche le inviavano foto da cui togliere pance e doppi menti, per ricordi falsati ma forse più piacevoli; aveva anche aggiunto un po’ di capelli anche alla foto del padre, quella che aveva scelto per il loculo e l’annuncio. Per lavoro disegnava soprattutto confezioni di merendine, quelle che in realtà sono più belle e appetitose di quelle vere. La nostra dispensa era piena di scatole di tegolini, crostatine e croissant, alcune erano disegnate da lei, altre le aveva comprate per studiare il lavoro della concorrenza. Lei abbelliva una realtà che comunque ti deludeva, quando aprivi la confezione e trovavi una cosa che somigliava alla lontana a quello che avevi visto sulla scatola. Ero al terzo giro del palazzo e guardai in alto. Attraverso le tende vedevo la luce dell’open space. Sulla finestra si stagliava un’ombra scura e ingombrante che mi impediva la visuale di quella che volevo sentire come casa mia.
Tornai su, dal bagno sentivo il rumore della doccia e la voce di Francesca che canticchiava. Lui, lo scrittoio, mi guardava di sbieco, una macchia di fallimento e ineluttabilità. E pensare che avevo accompagnato io il padre di Francesca da Mondo Convenienza. Mi ricordavo quando si era fermato davanti allo scrittoio e lo aveva osservato nei più piccoli dettagli, aveva aperto uno sportello, passato una mano sul ripiano, e alla fine lo aveva assoldato con una pacca sul legno finto. Non mi ero azzardato a dargli consigli di arredamento, tanto mi avrebbe comunque dileguato con un gesto della mano e un’alzata di spalle. Lo aveva pagato e io me lo ero caricato in macchina, ma prima di tornare a casa ci eravamo fermati in libreria. Lì mio suocero aveva preso un dizionario russo-italiano e viceversa, dei quaderni, una grammatica russa. «Che c’è?» gli avevo detto, «ci diamo alla cultura?». «Non diciamo cazzate» aveva risposto, «C’è questa infermiera, dove mi fanno le flebo. È una russa. Due tette. Mi porto da studiare, magari lei si mette a farmi un po’ di ripetizioni, eh? Che dici?». Non gli risposi. I libri sono quelli rimasti dentro lo scrittoio, la grammatica ha un segnalibro ma proprio all’inizio, forse ancora all’alfabeto.
Suonarono alla porta, erano i nostri amici. Francesca uscì dalla camera pronta e docciata, io non mi ero neanche cambiato. Aprii una bottiglia di prosecco, misi su un cd di musica jazz. Facemmo il giro della casa, io spiegai gli abbinamenti dei colori, qualche cazzatella di feng shui che avevo letto su internet. Quando passammo accanto allo scrittoio, Francesca si fermò. «Questo è l’unico mobile che ho tenuto di mio padre. Lo aveva preso per studiare il russo. Diceva che voleva leggere Guerra e pace in lingua originale, perché soltanto così le opere importanti si possono apprezzare. Diceva che avrebbe voluto farlo da sempre, ma che aveva dovuto aspettare la pensione. Voleva persino andare in Russia, per fare pratica. Non si è mai dato per vinto, mio padre aveva un’energia incredibile» disse Francesca, la voce sempre più strozzata, un occhio umido. Qualche abbraccio, e tornò la calma, e ci sedemmo a tavola.
Durante la cena guardavo Francesca che parlava e rideva con i nostri amici. Non era solo il fatto che avesse un lavoro e una casa sua: era anche ciò che provava per quello scrittoio che faceva in modo che mi stesse doppiando, sia che avesse abboccato o no alla storia che le aveva raccontato suo padre. In confronto a me il suo palmarès della vita era invidiabile. Forse l’avrei raggiuta, se ne avessi avuto l’occasione, o forse no. Dall’angolo accanto alla finestra, il mio sfidante ci guardava. Di me, non so davvero che cosa ne pensasse, ma di lei, di Francesca, era proprio innamorato.

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