Friuli Simona, Acqua

L’abito nero – poco più di una sottoveste – strascica leccandole caviglie e malleolo.
Ferma tra le pagine che ha mandato a memoria il segnalibro da sgozzatrice su cui un artigiano ha intagliato una falena carnosa; ali divaricate, flap flap, e Luvia abbandona allo specchio il suo viso da contessa aguzza, troppo infollita per esiliarsi tra i manieri scudati a leoni di cui avidamente legge. Fuori dalla camera, un’escrescenza rocciosa che pencola sul silenzio vegetale del parco, è autunno: ogni cosa decade e precipita. La Bella langue: ha sgranato gli occhi, pozze di cielo e di mare, sulle foglie ingiallite e sulla parvenza di pioggia che intride i rami spogli. Tutto va facendosi acqua e così lei, disciolta nel flusso del suo desiderio. Liquidamente sogna la Bestia, confinata nell’ala occulta del maniero di cui è padrona. Disserra la porta e rinuncia alla quiete lepidotterina: tende calate, penombra azzurra, un baldacchino mesmerico e polveroso. La treccia nerofumo cola tra le sue spalle – così ha accomodato la chioma menadica – frusciante sulla umida distesa della seta nuda. Non indossa amazzoniti né gigli.
È affamata, ma la cascata di gradini la condurrà alla sazietà. La Bella ha occhi che guardano a fondo; si  affida al corrimano e precipita, precipita fino alla Bestia, portandogli in dono il tesoro della sua verginità senza macchia, nutrita a letterarietà. Dando avvio alla discesa attraverso gli strati pietrosi, compulsione di crinoline che congegnano il castello, Luvia percepisce la furia lanceolata del suo signore, il suo signore rinchiuso tra pareti damascate e signorili – un turbine impastoiato –  per espiare la bestialità con cui è stato punito.
E diluvia, diluvia da lui.
Adoni senza gambe agonizzano contro le pareti, indifferenti alla propria mutilazione; Luvia si affretta ancora – così tanto lo ama!
I gradini scorrono fino alla sala della musica, ed è accolta dall’assillo di un unico insetto – Possibile? Un’ape in quell’autunno palustre – e dal suo ellisse incosciente attorno alla valva di un grammofono rotto; al centro del salone incernierato da tendaggi di velluto pesante, un pianoforte è sospeso e muto: i tasti distrutti da zampe maldestre. Luvia si sottrae alle finestre che celano il ristagno dell’autunno corrotto. La condensa impregna le mura del palazzotto, rendendo l’azzurro più azzurro,  una esasperazione forsennata che languente  la spinge a cadere lungo la scalinata.
Finirà mai di precipitare?
Non si sono incontrati che una volta, quando ha salvato la vita al padre consegnandosi prigioniera. È nata in un deserto del sud e nella materia renosa venne assemblata da un signore gentile e obsoleto e dalla madre tiranna che l’ha lasciata troppo presto. Fu l’ultima delle tre figlie di casa. Niente la toccò mai, nelle sue aridità. Si infatuò per un giorno, nelle fiumane voluttuose dei suoi quindici anni, di un conticino amico del padre – ricciuto, rossigno, dal sangue demente – così smorto e ignavo da esser dimenticato  senza rimorsi. Luvia si era rassegnata, inacerbita da quell’unico fanciullesco amorazzo, a trovar riempimento tra le pagine dei romanzi che divorava tra gli scherni delle sorelle invidiose, che sempre la denigrarono strappando come ali di farfalla le pagine dei libri che aveva più cari: in cui si faceva piratessa, avventuriera e santa, e perfino dominatrice.
Ma arrivò la Bestia.
Dopo il naufragio delle sostanze paterne la famiglia si era votata  alla miseria della vita rurale finché il leone, geloso delle rose che concimava e annaffiava col sangue degli intrusi, non l’aveva chiesta a risarcimento del furto floreale. Un mescolamento inatteso di uomo e animale: la criniera filamentosa dei felini di cui ha la forma, lo stesso occhio contornato di nero, composto a materia solare. Ma l’andatura eretta contraddice l’animalità dell’aspetto: una deità preistorica e vigorosa, superiore in bellezza a qualsiasi maschio.
La perfezione delle bestie vince e dilania.
Così gigantico e sovrastante da darle le vertigini, quel suo signore amante della musica cui non può più dedicarsi. Gli chiederà di addomarla alle note, per fargli piacere, purché la tenga vicina. Con che orgoglio – “Così sono fatto, mio malgrado!” – le ha porto ossequi mimando un inchino: non indossava maschere né vestaglie che celassero il corpo dorato.
Il castello è distrutto,  il  nubifragio  dall’esterno   corrode le mura – per quanti temporali reggeranno , ancora? La pietra non resiste all’acqua, e Luvia sa che si scioglierà assieme al suo ventre fecondo e influenzato dalle maree. La Bestia l’ha resa un fondo marino. Con quali poesie, le stesse che sciorina  pensandolo, vincerà il conflitto che lo porta a odiare se stesso, e il suo incantesimo?
I gradini si sfaldano sotto i suoi piedi rapiti. Scalza, fluisce verso di lui come  una ancella che è danzatrice di strada, dunque strega quindi bambina dal cuore nelle pupille: non conosce l’amore se non attraverso  fretta e annegamento: lo seguirà nella sua condizione animale, mostrandogli, con risentimento le conchiglie  inermi e bambinesche dei suoi seni rotondi, le alghe  corvine del pube – la dolce piega che lui solamente colmerà.
Affamata, per l’ultima volta scende la scalinata, un interminabile groviglio di gradini che l’ha condotta, infine, nelle profondità della terra. Le pare di scendere da una vita intera, via dai suoi vent’anni freddi e invernali, che mai debba arrivare a colui che vuol conoscere così com’è – non ha a cuore le opere di incivilimento – nella reciproca distruzione che in mareggiata la prenda.
Amarlo prima ancora di renderlo amabile – perché, poi? – senza bestemmiare ciò che appartiene al tempo della selva, delle erbe matte, e delle lunagioni.
Amare la sua animalità fiera e senza strappi, l’agile nervatura dei suoi arti dorati.
Da essi farsi sbranare, per la prima volta viva.

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