Arzachena Leporatti, Il buco

Quello che Gino non gli aveva detto sul buco è che scavare è faticoso. Da stamattina Michele avrà ripetuto “cazzo“, sbuffando ed asciugandosi la fronte un centinaio di volte. Ha dodici anni ma ha già un fornito vocabolario di parolacce per tutti gli usi. Pensa alla madre, che per ogni parolaccia gli avrebbe tirato un ceffone, poi pensa al padre, che poi questa storia del buco è tutta colpa sua.
Suo padre era morto mentre guardava Aldo Biscardi in TV che imprecava per qualche goal mancato. Lo aveva trovato lui, con gli occhi chiusi, i palmi delle mani rivolti in su come se pregasse. Suo padre non era un bravo cristiano. Beveva, fumava, aveva scopato sua madre prima del matrimonio e altre donne durante. Michele provò a svegliarlo, ma niente. Provò anche a urlargli nelle orecchie, a scuoterlo fino a fargli scivolare il sedere giù dal divano. Era rimasto lì suo padre, in quella posizione ridicola, con il collo e il busto molli, riverso sulla pancia e con i palmi in su. Michele aveva chiamato l’ambulanza e poi la madre. Nessuno aveva detto una parola.
Era malato da un po’, come andava dicendo sua madre a tutti i conoscenti che chiamavano per farle le condoglianze, ma in realtà nessuno si immaginava che ne sarebbe andato così, in sordina. Michele aveva capito che era malato quando aveva iniziato a dire troppo spesso cose incomprensibili, a vedere persone che non c’erano. Poi però, negli ultimi e scarsi momenti di lucidità, lo prendeva sulle gambe deboli e lo caricava a cavalcioni, come quando era un neonato. Iniziava ad alzare ed abbassare i talloni e poi le punte dei piedi, facendogli rimbalzare il culo sulle sue ginocchia. Non sentiva la fatica, semplicemente continuava a cullarlo, a scuoterlo e a ridere e poi ripeteva quella cosa del buco.
«Fra un po’ vado nel buco, Miche’, vado nel buco e non torno più».
«E se io ti voglio ritrovare?»
«Scava, te scava, scava a mani nude per terra, con la terra che ti entra dentro le unghie e poi mi ritrovi».
«Va bene».
«Scava».
«Ho capito».
Era iniziata così quella storia del buco.
Se c’era una persona in tutto il quartiere che sapeva ogni cosa, quella era Gino, il proprietario del bar sulla statale. Michele non sapeva perché, non sapeva cosa intendessero quando diceva che «Gino sa fare praticamente tutto», ma lo dicevano tutti, e Michele non aveva motivo di dubitarne. Così, il giorno dopo la morte del padre, Michele c’era andato, da Gino. Si era ricordato del buco, del fatto che poteva ritrovarlo e salire ancora sulle sue gambe deboli, magari far sorridere di nuovo pure la mamma, che si era chiusa in un silenzio spaventoso, ma gli serviva una mano. Aveva parcheggiato la bici davanti al bar sulla statale e aveva trovato Gino seduto su uno sgabello sgangherato e storto come i suoi occhi.
Senza nemmeno dargli il tempo di chiudersi la porta dietro le spalle e di aprire la bocca, Gino gli aveva chiesto: «che c’è?».
Michele lo aveva guardato, aveva provato ad assumere un’espressione il più possibile seria, dura, credibile. Ma poi il tono della sua voce infantile aveva tradito un certo timore nel fare quella richiesta, che pronunciata a voce alta diventava inevitabilmente reale.
«Mi diresti come si scava un buco per terra?».
«E perché io?».
«Perché tu sai tutto».
Gino accennò un sorriso. «Prima dovresti dirmi a cosa ti serve scavare questo buco. Cosa cerchi?».
«Il babbo».
«Ma sei scemo?»
«No. Non ti preoccupare te. Dimmi solo da dove devo partire.»
«Va bene. Fanno cinque euro»
Michele pensava che quella cosa che si diceva in giro, che Gino si facesse pagare per le sue consulenze, fosse una leggenda del quartiere.
Per lui era la prima volta lì, in piedi come un fantoccio, con il petto in fuori e una paura bestia. La prima volta che chiedeva a un uomo come scavare un buco per trovare suo padre.
Michele aveva tirato fuori dieci euro sgualciti dalla tasca dei jeans.
«Ce l’hai da farmi il resto?».
Gino aprì una cassetta che aveva un’aria tutt’altro che sicura ed estrasse cinque euro. Li passò al ragazzino facendoli strisciare sul bancone, raccattando polvere, sputacchi e altri residui di vita. Poi gli disse come doveva scavare il buco.
Quella sera Michele, subito dopo cena, era sceso in cortile, dove spuntava timida dell’erbetta verde, nel punto dove la madre dal balcone non poteva vederlo. Indossava dei guanti che gli aveva dato Gino e stringeva una pala dall’impugnatura comoda e il bastone corto. Iniziò a scavare piano, con movimenti precisi, creando una prima fossa con un diametro abbastanza grande, ma non troppo. Poi iniziò ad andare più in profondità. La notte si faceva strada nel cielo, un brivido gli aveva percorso la schiena. Dalla tasca tirò fuori una piccola torcia, quella che usava il babbo per controllare i contatori del palazzo quando andava via la luce. La mise sul bordo del buco e continuò a scavare. Quando salì in camera da letto il buco era profondo 50 centimetri.
Era un lunedì di maggio, Michele aveva saltato la scuola perché era un giorno molto importante o almeno in qualche modo più significativo di altri. Suo padre era morto da un mese e il buco misurava un metro. Quel metro di buco lo faceva sentire vicino a quella cosa che raccontava il babbo, quando sembrava essere di nuovo lui, lucido e pensieroso insieme.
Poi però diceva quella cosa del buco e allora sembrava di nuovo pazzo. Ma quella follia sembrava celare qualcosa di vero. Almeno era sembrato vero al ragazzino che, appena poteva, si metteva a scavare il buco. Di sera lo tappava con una cassetta di legno lunga e larga. Dentro c’erano dei gerani quasi appassiti. Si mantenevano vivi per non si sa qualche miracolo.
Un mese. Un metro.
Il ragazzino si ricordava precisamente che Gino gli aveva detto che a un certo punto avrebbe trovato qualcosa. «Per forza», aveva detto, prima di mettersi a imprecare contro la tv che andava e veniva, mostrando delle grosse tette in sovraimpressione, ma solo a minuti alterni.
Un mese. Un metro. Per forza.
Aveva continuato a scavare quel buco perfetto, che chissà dove portava.
Quello che non gli aveva detto Gino era che poi a un certo punto sottoterra c’è l’acqua. Che prima o poi trovi della maledettissima acqua che ti rovina tutto. L’acqua che riempie il buco e fa franare le pareti.
Michele guarda l’acqua bastarda, la fissa salire senza sosta e riprendersi a poco a poco quei centimetri di terra. Gino non glielo aveva detto e nemmeno suo padre, che poi in fondo al buco non c’era un bel niente. C’è solo quest’acqua che ti fa sentire un imbecille. Allora il ragazzino prende le mani e le mette a conca, le mette come per ricevere l’ostia dal prete, anche se nemmeno lui è un bravo cristiano. Al posto dell’ostia c’è quell’acqua. Forse suo padre si è trasformato in quell’acqua che ora il ragazzino si getta in faccia, che lo pulisce, che gli lava via il sudore, ma che allo stesso tempo lo sporca perché è intrisa di terra, perché non può separarsene, non ora, perché la trasporta e la nutre.
Michele rimane lì fino alla mattina dopo, non mangia e non dorme. Parla con il buco e con l’acqua. Poi si alza, lascia il buco scoperto, o almeno quello che ne rimane, si cambia e va a scuola. Coi giorni Michele quasi se ne dimentica, del buco. Poi, una sera, arriva un acquazzone, violento, improvviso, che però non dura più di un’ora. E a Michele torna in mente il buco con l’acqua, si chiede se a quest’ora non è franato del tutto. Scende in giardino. Il buco è colmo d’acqua. Michele si affaccia a vedere, e vede suo padre, bambino.

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