Serena Patrignanelli, La fine dell’estate [scheda di lettura]

Testo di notevole interesse, dalla scrittura fluida tranne nella prima trentina di pagine in cui sembra faticare a imboccare la propria strada. Siamo in un imprecisato cronotopo dai vaghi tratti della Roma periferica della seconda guerra mondiale. Siamo nel tempo senza tempo delle vacanze. C’è un conflitto in corso, di cui non sappiamo nulla: potrebbe essere qualsiasi conflitto. A poco a poco gli uomini sono chiamati alle armi o fuggono. I beni di prima necessità scarseggiano. Rimangono le madri, rimangano inizialmente le “bucione” (puttane di pasoliniana memoria) e, naturalmente, i bambini, sempre più padroni del Quartiere. Undicenni analiticamente e amorosamente descritti. L’autrice sembra voler anticipare l’adolescenza a un’età più precoce dell’usuale. Ma forse è un segno dei tempi. I nostri ragazzini sentono con profondità, vivono l’amicizia, amano, sognano non più come bambini. È un testo ricco e ampio − circa 370 pagine –, lo si potrebbe dire policentrico. Ci sono forse troppe storie in una (l’amicizia tra Augusto e Pietro, la storia della 1100 e del gasogeno, l’amore di Augusto per Semiramide, la storia dell’oste Mario e delle sue figlie, la storia di Virginia e Michele, la storia di Sorchelettrica, Ottavio e Samuele…), gestite con meticolosa cura del dettaglio. Ma vale assolutamente la pena inoltrarsi nell’universo immaginato dall’autrice, dal quale si finisce col rimanere ammaliati.
I ragazzini devono sopravvivere: così imparano a smantellare le dimore abbandonate e a vendere gli oggetti al mercato nero, progettano orti, instaurano invisibili rapporti di potere. Due di loro – la coppia protagonista di grandi amici, Augusto e Pietro – decidono di costruire una macchina con motore a gasogeno in modo da sopperire alla mancanza di benzina. Tale costruzione, minuziosa e costellata di tecnicismi, fa da fil rouge all’intero romanzo. E, a poco a poco, l’idea che ha colto il lettore all’inizio di trovarsi in una periferia romana, nell’estate del ‘43, si sfrangia, si dissolve: si capisce sempre più, col procedere della lettura che la narratrice vuole mettere in campo, con tocchi talora favolistici, la cronaca di una realtà qualsiasi in balia della guerra, dove tutto viene rimesso in questione, dove non valgono più le vecchie regole. È un fenomeno che ci riguarda tutti, che ci ha sempre riguardato.
La scoperta del mondo da parte del gruppo di bambini è uno degli elementi più riusciti del romanzo. Ci sono le prime avvisaglie d’amore; c’è il primo grande tradimento subito da Augusto (da parte del suo grande amico Pietro); c’è la prima ubriacatura; ci si atteggia da adulti; si instaurano sottili rapporti di potere; ci sono ragazzine che conquistano il loro spazio di autonomia. Ma ci sono anche la scoperta, la consapevolezza e l’attenzione per le proprie emozioni, per come ci si sente e per come si devono affrontare il male, il dolore e la paura.
Ma tutto ciò non sembra portare a una vera formazione, rimane un’esperienza fra le tante possibili, forse un sogno: “Perché il mondo si rinnovava continuamente, e quello che sembrava esperienza era solo illusione, quello che sembrava un punto d’arrivo era meno che un punto di partenza, e non iniziavano stagioni che durassero per sempre” (371), sono infatti le parole che concludono La fine dell’estate.
In conclusione, un romanzo di grande originalità, che richiederebbe un’opera di sfoltimento per emergere in tutto il suo valore. Sicuramente va eliminato il prologo che stride con l’atmosfera sfumata tra reale e irreale del resto dell’opera.

 

 

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