Una prova interessante, di apprezzabile manierismo, questo romanzo breve: ben scritto, stilisticamente fluido e corretto nella forma, originale e con una buona gestione dei personaggi. Oltre che genuinamente angoscioso e claustrofobico.
Le lettere del carcerato 32 B (ignoriamo nome, paese, contesto) alla donna amata segnano i suoi giorni e restano senza risposta – e fino alla fine riteniamo che siano bloccati dall’amministrazione, o che vengano bloccate le risposte in entrata. In ogni caso le lettere non si limitano a illustrare la condizione da incubo, per molti versi atroce di chi è vittima di meccanismi di “giustizia” stritolanti e incomprensibili, come quest’uomo che si dice innocente e non comprende l’inerzia dell’avvocato; non si esauriscono nella narrazione dei suoi rapporti complessi con guardie e compagni di sventura – essenzialmente omicidi (anche se alcuni personaggi di primo acchito parrebbero mitissimi: o è lui che li vede così?) – e delle spiazzanti dinamiche nel carcere. Regole vessatorie esplicite o implicite, raggelanti brutalità o invece sghembe e surreali concessioni… Ma neppure il tutto si esaurisce alla luce del finale a sorpresa, molto ambiguo nell’aprirsi a diverse possibili interpretazioni – una per tutte, la follia di chi in realtà abbia ucciso la partner cui scrive e il figlio di cui chiede notizie – e costringe comunque il lettore a rileggere il senso dell’intera narrazione. Questi aspetti sono ben gestiti dall’autore, ma non è lì la vera originalità del testo. Tale plausibile interpretazione parrebbe confortata, peraltro, dall’immagine che scaturisce dalla penna di 32 B dinanzi al pupazzo della moglie da lui modellato nel cortile del carcere: “Che nel frattempo si fosse messo a piovere, in un primo momento non me ne sono nemmeno accorto; l’ho capito soltanto alla vista del tuo cardigan rosso che, sotto la pioggia, si scoloriva in lunghe scie che andavano a imbrattare la tua figura dappertutto. Doveva essere un cardigan di pessima qualità” (71).
Ciò che invece costituisce l’aspetto più interessante è la costruzione, frase dopo frase, di un personaggio dalla positività un po’ equivoca e appiccicosa, ambiguamente (e fastidiosamente) ragionevole e buonistico in una situazione estrema. Una costruzione dipanata lungo tutta la storia a piccoli cenni come i pezzi del puzzle che mai 32 B terminerà, tra menzioni oblique a fatti che resteranno ignoti (il misterioso episodio con l’amata alle terme di Budapest), piccole questioni surreali (il tema del ricordare il nome, e come viene giocato) e scene di strane reazioni dei compagni di pena (certi loro entusiasmi ai suoi racconti, o alle sue proposte di reazione al sistema). Un tessuto insomma dove i nessi causa-effetto procedono sempre lievemente, volutamente sghembi come nel fluire di un sogno o nell’incalzare di un delirio.
In sostanza – si può pensare – che 32 B – il quale si proclama innocente – non accetti di aver ucciso e cerchi di definire, nel teatro di se stesso, un’identità incongruamente positiva, tra sentimentalismi e sbocchi genuini di dolcezza, momenti di rabbia (pochi) e progressiva, inarrestabile alienazione. Questo gioco ha apparentemente termine nel finale, quando nella cella compare un nuovo 32 A, “fresco fresco” (73): o in realtà è il vecchio, redivivo? 32 B nel suo sguardo delirante lo vede sbucare dallo stesso sacco nero col quale è stato portato via cadavere il suo ex compagno di cella. Quel che conta è che, a questo punto, i ruoli si capovolgono: adesso il veterano è 32 B, e tocca a lui trasmettere al nuovo (?) arrivato il corpus di regole della casa. Insomma, l’ordine gerarchico permane, anzi si conferma: semplicemente gli attori si scambiano le parti, in una sorta di eterno ritorno dell’identico da cui non pare esserci via d’uscita.
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