Il padre ha detto che gli farà uscire il sangue. Gli spaccherà la testa e gli spezzerà le ossa. Gli romperà il collo e lo butterà in un buco. Cadrà nel buco e resterà lì sotto. Resterà nel buio e non potrà più uscire. Si spegneranno gli occhi e marcirà la pelle. Tutti quanti lo dimenticheranno. Dimenticheranno la sua faccia e dimenticheranno il suo nome e lui non sarà mai esistito. Si sveglia nel buio. Il fratello dorme ancora. Giovanni esce di casa e cammina sull’erba fino allo spiazzo di terra bianca e secca dove lavora il padre. Su un lato c’è un piccolo capanno di lamiera dove il padre entra a lavorare quando piove. Il capanno si appoggia alle mura dell’acquedotto romano che dominano la loro casa e in due grandiose falcate tagliano e superano la ferrovia. Su un grande tavolo di ferro il padre ha steso il pezzo di un vecchio tetto di lamiera. Con una sega taglia la lamiera in pezzi più piccoli. Guarda Giovanni senza smettere di tagliare. Poi si ferma e solleva lentamente in alto e indietro la schiena. Fa’ vedé, gli dice. Giovanni apre la zip della felpa di pile e fa sgusciare fuori la spalla e il braccio. Mostra la fasciatura ancora stretta e pulita. Il padre dice: Vai, e con il mento accenna al posto del cane. Giovanni richiude la felpa e va verso la rete di metallo romboidale. Il cane ora è sveglio e lo aspetta senza scodinzolare e senza abbaiare e senza la coda tra le gambe. È un pastore maremmano con una chiazza sul fianco dove non crescono i peli. Non ha un nome. Giovanni gli infila il guinzaglio intorno al collo e subito il cane comincia a tirare. Gli ripete di stare buono ma il cane non lo sente. Il cane è più forte di lui. Se si alza su due zampe il muso svetta sopra la sua testa. Il padre li guarda senza commentare. Poi tira la schiena indietro e in alto e lancia un urlo. Il cane non si ferma ma le orecchie scattano e si allenta la pressione del collo sul guinzaglio. Giovanni gira il laccio intorno al polso. Il padre lo guarda per un po’ e si rimette a lavorare nel suo torvo zelo. Giovanni prende il bastone appoggiato accanto alla rete. Scende verso i binari e mentre cerca il posto si fa mattina. Segue il percorso della ferrovia. Raggiunge un punto in cui i binari cominciano a curvare. Prosegue dritto dove finisce la ghiaia bianca e grigia e sale per un piccolo promontorio di erba secca. Attraversa le siepi di oleandri. Il corpo suo e quello del cane frusciano tra le foglie. Dietro le siepi c’è un piccolo spiazzo. Giovanni guarda un po’ intorno e a terra. Percorre un impreciso perimetro dello spiazzo. Poi strattona il cane e scende nella direzione opposta a quella da cui è venuto. Qui l’aria è umida e l’erba lucida e scura. Costeggia il muro sabbioso e granulato dell’acquedotto. I fili delle sterpaglie gli sfiorano i fianchi. Arriva all’imbocco del tunnel che inghiotte la ferrovia. Non ci ha mai visto passare un treno. È lungo una decina di metri. Dall’altra parte vede nitida la strada e il passaggio a livello. Dentro è freddo e i loro corpi sono grigi e blu. Il braccio con cui tiene il bastone gli fa male all’altezza della fasciatura. Posa il bastone e si sfrega il braccio attraverso la felpa. Lascia il guinzaglio a terra e il cane non corre ma si siede e aspetta con la lingua di fuori. Giovanni riprende il bastone e guarda il cane che guarda avanti verso il passaggio a livello al di là del tunnel. Fa qualche passo indietro e impugna il bastone anche con l’altra mano. Lentamente lo porta sopra la testa del cane. Il cane si volta e lo guarda ma non scappa e non teme nulla perché lui non l’ha mai picchiato. Non varia nemmeno il suo respiro mentre Giovanni stringe ancora il bastone e lo solleva sopra la testa del cane e sopra la sua. Il cane non si volta più ma guarda le pareti del tunnel e poi ancora intorno e avanti mentre Giovanni sistema ancora l’impugnatura del bastone sopra la propria testa e respira più a fondo per evocare forza nelle braccia. E poi le braccia hanno un’incertezza e ricadono sulle spalle e Giovanni appoggia il bastone tra il collo e la sua spalla destra e guarda il cane. Lascia cadere il bastone e il cane si tira su e fa un breve giro su sé stesso. Giovanni lo guarda gironzolare per il tunnel. Gli prende il muso tra le mani e le orecchie scattano. Te ne vai, gli dice. Mo’ te ne vai e non torni. Lo ripete dritto nell’orecchio. Poi glielo ripete guardandolo negli occhi. Sfila il guinzaglio dal collo e lo spinge con entrambe le mani verso la fine del tunnel. Gli strilla contro e il cane abbaia come ad imitarlo. L’eco del tunnel rende i suoni alieni e squillanti. Giovanni raccoglie il bastone e lo agita verso il cane. Finge di colpirlo anche se è troppo lontano e il cane sparisce oltre il passaggio a livello. Giovanni si volta e corre via. Lungo la strada rallenta il passo a controllare ma il cane non lo segue. Passa oltre il promontorio e gli oleandri e arriva alla recinzione che cinge il lato di casa sua affacciato sulla ferrovia. Passa oltre il tavolo di ferro dove c’è il padre che lo guarda. Posa il bastone senza dire niente ed entra subito in casa. In camera si sdraia sul letto sotto la finestra. È cominciato il freddo e la finestra è piena di spifferi gelidi che lo pugnalano durante la notte. Prima ci dormiva il fratello ma da quando ha cominciato a stare male si sono scambiati di posto. Giovanni guarda il letto su cui il fratello è rannicchiato con la faccia al muro. Ha tredici anni e Giovanni undici ma sembra più piccolo di lui. È dimagrito e la malattia gli ha mangiato il colorito e la voce. L’hai fatto, gli chiede. Giovanni non risponde. Il fratello volta la testa e lo guarda con la coda dell’occhio. Poi si volta con tutto il corpo e si rannicchia dando le spalle al muro e con la faccia incassata tra le spalle guarda Giovanni. L’hai fatto, chiede ancora. Giovanni non risponde e guarda fuori dalla finestra. Il morso ti fa male, chiede il fratello. No. Dimmi se l’hai fatto, gli chiede ancora. Sì. Com’è stato. Brutto. Non l’hai fatto. L’ho fatto. E allora com’è stato, chiede. Giovanni comincia a raccontare mentre il fratello si protende col collo oltre il bordo del letto e spalanca gli occhi con un sorriso che sembra l’accenno di uno starnuto. Gli dice che ha portato il cane oltre la ferrovia e oltre il promontorio. Oltre le mura dell’acquedotto e verso il tunnel. Nel tunnel ha posato solo un attimo il guinzaglio per afferrare il bastone con due mani. E allora il cane è schizzato via. Scemo, dice il fratello che sorride arricciando il naso. Giovanni racconta che l’ha inseguito oltre il tunnel e oltre il passaggio a livello e oltre la strada dove passano le macchine. Per poco una non l’ha investito. Sentiva il clacson che si dissolveva mentre con gli occhi cercava il cane e si infilava in un campo con le spighe gialle e alte. Ha corso nel campo ed è arrivato a un laghetto. Ha visto l’acqua smossa e ha capito che il cane era passato di là. L’ha attraversato ed è arrivato in un punto dove non c’era erba né fango ma solo ghiaia bianca e il cane lo aspettava sotto un albero colossale e senza foglie. Aveva smesso di scappare e lo aspettava. Gli ringhiava contro senza attaccarlo. Giovanni ha preso il bastone e l’ha sollevato. Ha smesso di ringhiare e l’ha aspettato in silenzio. Lui ha calato il bastone e il primo colpo è arrivato sul collo. Il corpo del cane ha seguito il collo come se qualcosa lo tirasse dal basso ed è atterrato sulla ghiaia bianca. Il primo colpo è stato senza sangue. Poi ha sollevato ancora il bastone e ha aspettato che il cane lo guardasse. Il cane l’ha guardato senza ringhiare e ha aspettato ancora. Il secondo colpo è arrivato sulla spalla e il terzo colpo è arrivato sulla testa. Ha sollevato ancora la mano e il cane non lo guardava più e ha colpito un’altra volta e un’altra ancora. Tutti colpi senza sangue. La testa ne seguiva il verso come se non sentisse nulla. Poi ha colpito un’altra volta e gli occhi si sono aperti per un attimo come una brace nell’ombra e sulla sommità della testa si è schiusa una striscia rossa tra i peli. La striscia si è allargata e si è annerita tanto che il cane sembrava cavo al suo interno. Il collo ora era curvo e le zampe anteriori allargate e stese come se fosse stato sul punto di alzarsi. Il resto del corpo era invece massiccio e abbandonato e oscillava seguendo i colpi che continuavano via via più lenti e deboli. Giovanni guarda fuori dalla finestra e vede il padre che tiene tra le mani il bastone che aveva lui in mano fino a poco fa. Vede il padre che guarda il bastone senza tracce di sangue e di nulla. Giovanni si volta verso il fratello. Tu come stai, chiede. Il fratello sorride ancora e non risponde. Non vuole abbandonare la storia del cane. Si volta a pancia in su e mette una mano dietro la testa. Come sempre, risponde. Sentono abbaiare. Giovanni guarda fuori dalla finestra. Non lo riesce ancora a vedere ma la voce cresce ogni secondo. La stanza non ha una porta ma una tenda a piccoli scacchi rossi e bianchi che nessuno tira mai e che Giovanni ora tira mentre esce. Fuori dalla porta d’ingresso trova il padre magro e lungo come un palo conficcato nell’erba. Ha i baffi biondi e la barba sparsa sulle guance grigia come polvere. Il cranio è lucido ma dietro e ai lati della testa i capelli chiari sono lunghi e li tiene raccolti in una coda. Solo la mattina quando è appena sveglio lo vede con i capelli sciolti. Li raccoglie subito con pochi secchi colpi di polso. Oggi come ogni giorno indossa la felpa verde e i pantaloni blu con le strisce catarifrangenti di quando lavorava nei cantieri. Guarda il punto preciso in cui affaccerà il cane. Giovanni lo vede arrivare e andare dritto verso la mano tesa del padre. La mano si piega in una piccola conca in cui il cane mette il muso e il padre con l’altra mano accarezza la sommità del cranio. Lo accarezza con tanta forza che gli occhi si spalancano quando la mano arriva al collo. Il padre si solleva alto. Gli avevi detto di non tornare. Ma è un cane stupido e non ubbidisce. Si allontana e il cane e Giovanni lo seguono come se non potessero fare altrimenti. Il padre va verso il tavolo da lavoro. Prende il martello. Ti ha morso e ti morderà di nuovo, dice a Giovanni. Si dà due colpetti alla coscia per far avvicinare il cane. Il cane si avvicina e lo accarezza sulla testa. Ti ha morso e morderà tuo fratello. Non imparerà mai. Cala il martello e il braccio segue tutta la spalla e il cane si schiaccia a terra con una specie di singhiozzo. Per un attimo la testa si affloscia lentamente e poi tutto si ferma. Il padre posa il martello sul tavolo di metallo che risuona. Giovanni non riesce a smettere di piangere e il colpo del padre è così improvviso che con la mascella sbatte contro la propria spalla. Non cade ma resta sospeso con la testa che oscilla. Il padre non si accorge del dente ma Giovanni setaccia la bocca con la lingua e scopre il buco. Il padre si allontana verso casa. Giovanni resta in piedi e piange finché non ha più niente da piangere. Poi si mette in ginocchio e comincia a cercare il suo dente. Non lo trova. Si alza in piedi e si accuccia e cerca ancora per gli stessi pochi metri tra l’erba e i sassi e le gambe del tavolo. Si avvicina al corpo del cane per cercare anche lì vicino ma riesce a guardarlo solo una volta. Ha gli occhi socchiusi e la bocca socchiusa come se fosse sul punto di fare o di essere qualcosa. Giovanni continua a cercare senza fame e senza stanchezza. Poi arrivano entrambe insieme con il buio. Rientra in casa e nasconde le mani piene di terra incrostata.
Andrea Esposito, Città assediata [estratto]
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