Francesca Piovesan, “La memoria bassa”

Sono le dieci. Devo fare la medicazione. Ogni giorno, per quindici giorni, devo fare la medicazione. Il medico mi ha raccomandato puntualità e costanza. L’ha detto alla fine dell’intervento, con la sua voce da baritono. Io ero confusa e dolorante dall’anestesia, lui mi riempiva di parole, mentre un’infermeria terminava la fasciatura.
Adesso le rimando a memoria, quelle parole, come fossero una filastrocca: devo lavare, pulire, disinfettare. Per fortuna è estate, e sono leggera, nei pensieri, negli abiti, nel mio procedere incerto: resta al sole, così guarisci prima, è il consiglio di tutti. Abbasso la tapparella della cucina per ottenere la giusta penombra, per riuscire a vedere le ferite ma allo stesso tempo negarle. Prendo la bacinella arancione e la riempio d’acqua tiepida. Il dottore ha detto non troppo calda, né troppo fredda. Sfilo le infradito. Immergo i piedi. Sento la pelle ammorbidirsi, diventare lieve. La sento altro da me, come olio che riesce a galleggiare, a staccarsi da quello che lo fa precipitare. Le fasciature diventano matasse di cotone da lavorare. Potrei stenderle con le mani, accorciarle, allungarle, creare piccoli quadrati da far seccare al sole, per poi dipingerci sopra. Resto così per dieci minuti, guardandomi i piedi. Sono bianchi, piccoli, con le dita storte, come quelle di mia madre. Lì dentro, in quell’acqua tiepida, ci sono i miei ricordi. Affiorano con lentezza, facendosi trasportare. Li riconosco. Li chiamo per nome. Tu sei il primo, il più lontano.

Ho imparato a camminare in una sera di temporale. Uno di quei temporali estivi, forti, che spaventano. Avevo poco  più di un anno. Tutti si preoccupano sempre se non cammini, se lo fai troppo tardi. Io ero impegnata a fare altro, a pensare ad altro. Non mi interessava questa esibizione di forza richiesta a priori, questo correre verso qualcuno, questi corpi adulti che si riducevano della metà, si piegavano su menischi rotti, e incitavano a gran voce. Camminavo a modo mio, tenendo sempre la mano di chi mi stava a fianco: mia madre, mio padre, mia zia. Ero felice di quell’esplorazione del mondo assistita, di quella duplice visione. Il mio punto di vista basso, e il loro alto. Il mio avvicinarmi ai fiori, agli animali, ad altri bambini, e il loro toccare il cielo, la punta del pino davanti casa, la scia dell’aereo tra le nuvole. Semplicemente, non mi fidavo delle mie gambe. Le consideravo inesperte, poco adatte a sostenere tutto quello che avrebbero dovuto sostenere.
Quella sera ero nel salotto di mia nonna, tutti gli altri in cucina. Giocavo con una scimmia di peluche, seduta su una coperta verde, per terra. Mi piaceva tanto, quella scimmia, perché aveva mani e piedi di plastica, e potevo morderli. Giocavo guardando un divano di velluto blu, uno di quelli dove se ci passi l’unghia resta il segno, per poco, ma ci resta. Aggrappandomi a quel divano, prima con le mani e poi facendo perno sulla testa, riuscivo a mettermi in piedi, a ruotare il bacino un po’ a destra, un po’ a sinistra, capendo che si muovevano anche le spalle, un po’ a destra, un po’ a sinistra. Avevo deciso che sarebbe successo, che ci avrei messo tutta la forza possibile in quelle gambe. Le avrei raddrizzate per bene, senza esitazioni, conoscendo per la prima volta i miei muscoli stesi e tesi.
Mi ritrovavo in piedi, con le braccia lungo i fianchi. Assolutamente immobile, bloccata dalla paura, dal non farcela. I primi due passi sono stati difficili, ho rischiato di cadere. Ho capito che avrei dovuto portarmi quel corpo appresso per tutto il resto della mia vita. Ci voleva equilibrio, concentrazione. La scimmia mi sorrideva, e mostrava fiera i segni dei miei primi denti sul suo corpo.  Allora camminai veloce, in preda ad un’energia mai provata prima. Camminavo verso la luce del lampadario a fiori. Camminavo verso il mio arrivo, che non era quello di Giulia che abitava nella casa accanto, e nemmeno quello di Stefano, che mi rubava sempre il berretto al parco giochi. Questo era il mio traguardo, e ci arrivavo a piedi nudi. Il pavimento di marmo bianco e marrone. I miei piedi piccoli e bianchi. Fuori, le mani dell’universo.

Sfilo piano la fasciatura del piede destro. Il dottore ha detto di fare attenzione. Raccolgo il cotone dall’acqua, lo strizzo tra le mani, lo lascio cadere sul pavimento. Muovo le dita. Vedo l’acqua colorarsi di un rosa pallido. Le ferite sono ancora fresche. Libero anche il piede sinistro. Li osservo, avvicinando il viso alla bacinella. Sono sfumature. Sembrano le estremità di una statua, custodi di vite passate, di sangue congelato. Immergo le mani nell’acqua e le tocco. Mi massaggio il dorso e la pianta. Cerco di sciogliere le tensioni, di districare i nodi. E libero involontariamente altri ricordi.

L’acqua di un torrente. L’acqua del mare. La sabbia. Un prato umido. Risalgono piano, senza fretta. Formano delle piccole bolle, stanno respirando. Il Cadore, le prime gite in montagna, i sassi levigati da quella corrente così fredda. Un letto scivoloso, per noi inesperti, sicuro per chi ci scorreva da anni. I miei piedi che sbattevano veloci, due braccia forti che mi tenevano al sicuro. Il sale del mare, la schiuma che mi bagnava le gambe. La battigia dove lasciavo le impronte, disegnavo castelli e cuori con un bastone di legno, meravigliandomi, ogni volta, di quanta generosità ci fosse in quel pezzo di universo capovolto. La sabbia bollente che affrontavo con coraggio, in una continua sfida, camminando piano, lasciando che i piedi si scottassero, sentendo salire un brivido lungo la schiena. Fermarmi a ogni oasi d’ombra. Non correre. Mai, per nessuna ragione. Ricercare i pochi secondi di sollievo che mi servivano, e poi sentire di nuovo la sabbia rovente tra le dita, sotto le unghie. Farmi accarezzare dai fili d’erba umidi, di notte. Vedere le lucciole a pochi centimetri dal naso, vite così minuscole che trasformavano angoli di buio in ritagli di luce morbida, un’indicazione verso l’uscita, verso il passaggio da a ad a. Dall’infanzia a quella commedia agrodolce che spacciano per adolescenza, e invece è solo un prepararsi alla vita adulta, un attendere, un farsi male, per capire che ci si potrà fare sempre più male, ma ti salverà l’allenamento e il ricordo delle cadute. Cercare con lo sguardo chi si era fermato a togliersi le scarpe, ascoltando i miei consigli, chi si era messa un papavero fra i capelli, creando con le mani un piccolo scrigno, per custodire una bellezza così fragile.

Apro la bottiglietta di disinfettante e lo verso nell’acqua. Bastano pochi secondi. I miei piedi galleggiano in uno stagno  rossastro. Le ferite si aprono a raccogliere quel liquido, come bocche di carpe in attesa della mollica del pane.  Il dottore mi ha detto di fare la schiuma. Muovo i piedi avanti e indietro. Mi aiuto anche con le mani, facendo dei mulinelli. Lascio che il liquido rosso faccia il suo nobile lavoro: purificare, offrendomi ritagli di passato Cammino sul parquet della camera da letto. Domenica pomeriggio. Il vento gelido oltre le finestre soffia dalla notte scorsa, annuncia a gran voce l’arrivo dell’inverno. Un maglione di lana mi copre fino alle ginocchia. Mi pizzica la pelle, ma resisto alla tentazione di grattarmi, di sentire le costole in rilievo, di far scorrere le dita su quei binari storti e paralleli. Sento lo scorrere dell’acqua calda nella doccia. Penso subito al mare, alle onde che sbattono contro i pedalò trascinati sulla riva, ai tronchi orfani che si lasciano trasportare, e che saranno fuoco, e conforto, e bagliori in pomeriggi come questi. Mi avvicino alla mensola  sotto la finestra, ci appoggio i gomiti.  Guardo fuori. Alberi spogli che osservano i loro tappeti di foglie, un merlo che cerca di scaldarsi gonfiandosi tutto, nascondendo la testa sotto l’ala, lasciando all’inverno solo le penne più dure.  Respiro piano, per cercare di nascondermi da tutto quello che c’è lì fuori, per sentirmi protetta e sicura qui dentro. Ho i piedi caldi, il legno è caldo. Attraverso tutta la stanza premendo forte le piante, per catturare il calore, che immagino in un’armatura di ferro rovente. Il letto sfatto mi scorre accanto, i solchi di due corpi che hanno lottato, si sono cercati, caduti dentro uno nell’altro. Ferma sulla porta, mi appoggio allo stipite. Vedo la cabina della doccia appannata dal vapore. Una spalla che si muove, la testa piegata all’indietro, due mani a raccogliere i capelli. Mi sposto  di pochi centimetri per capire cosa mi è concesso ancora, il mio raggio di visibilità. Un braccio, il ginocchio destro, l’osso della clavicola che sporge. Mi avvicino come una pedina che si muove in verticale. Il freddo del marmo scuro mi sorprende, arriva di colpo, inaspettato. Sento centinaia di perle di cristallo scivolarmi lungo il corpo, arrivare nella pancia, ancora tiepida e sfinita. Entro in bagno e mi appoggio al mobile del lavandino. Lo specchio riflette la mia schiena che si torce a controllare le sue forme, un corpo nudo  esce dalla doccia. Mi si appoggia contro, sento il maglione diventare pesante sulle spalle, sempre più bagnato. Due piedi grandi il doppio dei miei mi tengono ancorata a terra, offrendomi l’acqua che li bagna, guidandomi in quella palude di nebbia.
Asciugo i piedi tamponandoli. Non devi strofinare, mi ha detto il medico. Se restano un po’ umidi è meglio. La pelle delle dita è raggrinzita, le unghie leggermente violacee. Li appoggio sulla sedia che mi sono messa di fronte. Il sole li scalda appena. Porto le ginocchia al petto e inizio a osservarli. Osservo le ferite. Le dita svuotate dalla carne. La cartilagine, un pezzo d’osso. Osservo i vuoti e i pieni, cerco di ritrovare il giusto equilibrio, di disporre sopra una bilancia il tutto, e di usare i pesi di piombo che ho ancora disponibili nel cassetto. Prendo le garze di cotone, ci verso sopra il disinfettante e le passo sui bordi della pelle. Oltre c’è il baratro, oltre non si deve andare. C’è un precipizio di dolore, la violenza del bisturi, la fiamma di un laser. La pelle diventa color ocra. Allungo la schiena, sento la colonna vertebrale distendersi, ogni singola vertebra pronunciare il proprio nome, chiamarmi usando il midollo che sta al riparo. Resto così, con i miei piedi bucati sull’orlo della sedia. Li piego fino a sentire i muscoli doloranti, la caviglia che scatta in avanti. Sono pronta, loro mi porteranno lì.

Il pavimento della camera mortuaria è grigio. Indosso un paio di sandali bianchi. Lì dentro è tutto freddo. Le pareti sono fredde, le porte di ferro e vetro sono fredde, la bara è fredda. Resto appoggiata al muro, poi mi siedo, poi mi alzo di nuovo in piedi. Ho una strana frenesia nelle gambe, le devo muovere, per dire a quel freddo che io sono calda. Devo aspettare un’ora, prima di risalire in un auto nera bruciata dal sole e andare in chiesa. Guardo gli intarsi della bara, li percorro con le dita, come una biglia farebbe con un percorso nella sabbia.  L’imbottitura color perla, il velo ricamato a coprire il corpo, un rosario fra le mani, l’offrirsi alla  morte in un rituale così dolce e straziante. Mi guardo i piedi fasciati. Vorrei essere scalza. E toccare tutto quel freddo. E poi uscire sui ciottoli ardenti, sentirli bruciare. E di nuovo tornare dentro, e sentirli ghiacciare.
Poi finisce tutto. Un martello, una fiamma ossidrica, zinco che cola. Per l’eternità. Esco e mi appoggio alla porta vicino alla foto. Data di nascita, data di morte. Accanto a me altre due porte. Occhiali scuri, volti segnati dall’abbronzatura e da dolori improvvisi. Il sole di luglio mi fa respirare male, cerco di trattenere nei polmoni ancora un po’ di quel gelo che ci è stato cucito addosso fin dalla nascita. Una rosa rossa schiacciata dalla ruota dell’autobara.  I miei piedi feriti, striati di rosso.

I pesi di piombo sono nel cassetto. I miei piedi sono guariti. Il passo non è più incerto. Il sole di Luglio è diventato meno feroce, si è trasformato nel preludio dell’autunno. I ricordi si sono fatti carne. Li vedo dall’alto, quando cammino lungo strade affollate, e incontro altri piedi, piedi sani o piedi feriti. Li scorgo appena quando sono distesa, e con gli occhi percorro le dita, le cicatrici che sono il sigillo dell’unire e del rinascere. Fino al prossimo taglio. Fino al prossimo bagno di ricordi.

Questa voce è stata pubblicata in Numero 15, Racconti. Contrassegna il permalink.

Una risposta a Francesca Piovesan, “La memoria bassa”

  1. Paola Pirovano ha detto:

    Bello e delicato come un soffio.

    "Mi piace"

Lascia un commento