Un dolore intenso, diffuso; le mani velate di sangue; un freddo umido, spaesante. Non ricordo altro. Poi gli occhi azzurri di Katarzyna – mia moglie non mi guarda così da un pezzo – le sue labbra sottili, i denti piccoli e ordinati. Giusto una fessura birichina tra i due incisivi. Passano di là l’insubordinazione e la concretezza dell’Est.
“Come ti senti?”. Sono sicuro che me l’ha chiesto. Mi prende per mano, mi aiuta a rialzarmi da terra e mi scaraventa su un taxi.
In bilico sul piano inclinato generato dalla mollezza del mio collo, osservo i suoi capelli biondissimi, quel taglio corto che tanto mi ricorda Mia Farrow in Rosemary’s Baby. Il demonio deve entrarci qualcosa in questa storia.
“Tranquillo, vieni da me a Villiers”.
“Perché?”
“Perché non hai più le chiavi”. Mia moglie e il bimbo avevano preso un volo per Berlino qualche ora prima.E il portafoglio? Non ho neanche quello. E neppure il cellulare. Cosa mi resta? Le mani con lo smalto consumato di un’amica polacca molto più giovane di me, troppa vodka Belvedere nel sangue – non ho più l’età per questo genere di cose – e qualcuno che gioca a biliardino nel mio cranio. Vomito sui sedili in pelle della Peugeot 607. Arrossisco. Katarzyna si occupa del tassista che vuole sbatterci fuori. Dice che gli pagherà il disturbo. Intanto mi pulisce la bocca con il suo foulard pieno di piranha rosa, poi mi accarezza la guancia sfiorandomi le labbra con il pollice. Ho voglia di baciarla. “Cosa è successo?”.
La luce anemica del televisore al plasma inondava il profilo di Luca. Lui guardava Julie. Lei, preoccupata, guardava il cellulare. Un uomo e una donna mezzi nudi intrappolati tra due schermi. Si erano incontrati la sera prima ad una festa organizzata da un’amica in comune: Amandine. Si sono osservati l’un l’altra mentre ridevano con altre persone; lo sguardo complice, un cocktail alla mano. Lei gli ha rivolto la parola verso le 4 del mattino, quando tutti stavano andando via e Luca parlava a voce alta con il gatto per convincerlo a rientrare in casa. “Ma che fai, parli con i gatti?”.
Meno di 24 ore dopo, Julie era a letto con Luca, i seni scoperti, rotondi, accoglienti; la pelle fresca di una venticinquenne che non ha mai lavorato. “Perché?”, si chiedeva Luca. “Perché si è fermata proprio sul più bello?”.
Uno strano formicolio si era impossessato delle sue gambe e del suo stomaco. Aveva fretta. C’era una guerra in atto: quella tra la voglia di non lasciarsi scappare una bella occasione – chissà quando mi ricapita – e il senso di colpa, direttamente proporzionale al tempo che passava. Valeria, la sua ragazza, lo aspettava a casa. Come ogni sera. Luca non aveva mai dormito in un altro letto negli ultimi quattro anni; cioè da quando Valeria era entrata nella sua vita. Non ne aveva mai avuto il coraggio. Ma questa volta… Finalmente quel vento di libertà, finalmente una francese. Gli occhi grandi e verdi, i capelli lunghi e castani, leggermente mossi, raccolti in un sobrio chignon con l’aiuto di una matita verde. Un jeans attillato e una maglietta alla marinara; niente reggiseno. Le labbra voluttuose e marcate di un rosso intenso, chimico. Il sorriso pieno. Cosa ci troverà mai in uno come me? La passione per la musica elettronica?
“Amandine è morta”, ha detto lei ad un tratto.
Jean-Philippe Butor è editor della casa editrice Faisselle da più di vent’anni. E in più di vent’anni non gli era mai capitata una roba del genere. A una settimana esatta dalla consegna degli ultimi tre capitoli del manoscritto – e a pochi mesi dall’uscita nelle librerie – André Morandini, l’autore di punta della casa editrice, era scomparso. Jean-Philippe sapeva che André aveva dei problemi con la moglie, ma non pensava che la situazione fosse del tipo: esco a prendere le sigarette. In compenso sapeva che Morandini ultimamente aveva ricominciato a fumare. Tanto. Che il suo sguardo furbo si era progressivamente appannato a tutto vantaggio del suo naso triste e che la cassa di Calvados (6 bottiglie) che gli aveva regalato poco più di due mesi prima era già sparita. Nel suo stomaco, molto probabilmente. Jean-Philippe sapeva anche che Morandini aveva un problema con il cellulare, ma non che fosse capace di andarsene via di casa senza lasciargli neanche un messaggio. Sapeva che la moglie non gli avrebbe mai parlato perché doveva a lui le scelte editoriali che regolarmente invischiavano il marito in un vortice di polemiche senza fine e che i figli, Lucas e Edmond, pensavano che fosse andato da qualche parte in montagna per terminare il lavoro in santa pace, come sempre. Jean-Philippe sapeva soprattutto una cosa: che Morandini aveva paura.
L’appartamento di Katarzyna è una classica mansarda parigina, romantica e claustrofobica. Tipico palazzo haussmaniano, sesto piano, non più di nove metri quadrati, toilette da dividere con i tre appartamenti vicini, di solito occupati da studenti. Lo utilizzo immediatamente, il bagno, perché devo vomitare ancora. Dalla minuscola finestrella situata giusto sopra il water si vede la Tour Eiffel. Le prime luci dell’alba ne definiscono i contorni, rendendola più austera del solito. Altro conato di vomito, testa nel cesso. Rientro nella stanza. Sono ancora stordito. Il vuoto pneumatico nelle viscere. Mi siedo in punta di letto, quasi a non voler disturbare. Katarzyna si mette in ginocchio e mi sfila delicatamente i pantaloni fradici. Interpreto male, ma è troppo tardi: l’erezione è già lì. Chissà se ne ha voglia, penso segretamente. Lei mi guarda dal basso. Sorride. Io arrossisco. “Dai, non stai così male”. Avevo interpretato male? Mette i miei vestiti nella piccola lavatrice verticale situata accanto al mini frigo. Resto in mutande. Lei prende un cuscino e si sdraia per terra, occupando il misero spazio che divide il letto singolo dal muro. Le chiedo di stendersi accanto a me e le faccio spazio. Le vendo la proposta come se fosse un atto di cortesia, ma lei capisce che invece è il gesto disperato di uomo che vorrebbe ma non ha il coraggio di andare fino in fondo. Mi racconta quello che è successo. La corsa mano nella mano sullo specchio d’acqua di place de la République, il mio scivolone a terra, l’uomo che ne approfitta per prendermi lo zaino e che corre sotto lo sguardo complice dei suoi compagni. E poi quella frase che riaffiora subito alla memoria: “Che succede, fighetto del cazzo? Eravate tanto felici tu e la tua troietta… Ora non ridi più eh?”. Io che gli chiedo di restituirmi almeno le chiavi di casa. E loro a ridere mentre Bouba canta “Game over” nel cellulare. E io: “Vaffanculo, stronzi!”. E loro che mi saltano addosso in tre. “Questo è solo l’inizio, vedrai!”. E poi un dolore intenso, diffuso; le mani coperte di sangue; un freddo umido, spaesante. Il sorriso di mio figlio.
A quanto pare Amandine non era l’unica ad essere finita al campo santo. I cadaveri si contavano a decine tra i tavolini dei bar, lungo le strade e sui marciapiedi del X e dell’ XI arrondissement di Parigi. I terroristi avevano sparato con i loro Kalashnikov sulle file disordinate e sorridenti di ragazzi e ragazze che brindavano spensierati a Daikiri e Châteauneuf-du-Pape. Un venerdì sera come un altro. Decine di corpi senza vita, di camicie Zadig&Voltaire, di giacche The Kooples, di cuffie Sennheiser e di iPhone6. Molti simboli, poche idee. Gli specchi dei bistrot, scheggiati dalle pallottole, si sono portati via la giovinezza di chi un attimo prima ci si era aggiustato la cravatta e la pettinatura nell’attesa di un appuntamento galante, di una serata eccitante. A poche centinaia di metri dal massacro, al secondo piano di un appartamento con vista su un pacifico cortile interno, squillava il cellulare di Luca. Più volte. Con insistenza. Ma lui era paralizzato. Julie era in lacrime. Valeria, la ragazza di Luca, stava scrivendo dei messaggi, ma era come se stesse gridando: “Dove cazzo sei? Dimmi che non sei in uno di quei cazzo di bar!”. Il telefono squillava. Ancora e ancora. Finché Luca non si era deciso a rispondere.
“Il ventre delle loro donne” era un’opera a metà strada tra il saggio e il romanzo. Un genere parecchio in voga, a quanto pare. Esporre una tesi controversa dissimulandola nella trama di un romanzo i cui personaggi, luoghi e situazioni sono “frutto dell’immaginazione dell’autore” – come si dice in questi casi – era un esercizio che proteggeva molto bene sia lo scrittore dalle accuse ideologiche, sia la casa editrice dall’ansia delle vendite. Morandini ci stava lavorando da poco più di un anno. Il personaggio principale del suo libro era un uomo di mezz’età, bianco, presumibilmente ateo e anche piuttosto sfigato. Pagina dopo pagina, il lettore assiste alla lenta e inesauribile distruzione del protagonista, che in pratica perde tutto – lavoro, moglie, rispettabilità – a causa della progressiva islamizzazione della società. In altre parole, quel testo poteva sembrare un’illustrazione romanzata della cosiddetta teoria del Grand Remplacement, ovvero la conquista dell’Occidente da parte dell’Islam, esemplificata dalla frase pronunciata dal presidente algerino Houari Boumediene nel 1974, cui si ispira il titolo dell’opera: “Un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero sud per fare irruzione nell’emisfero nord. E non in modo amichevole. Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. È il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria”.
Dopo gli attentati islamisti che erano costati la vita a più di cento persone, Morandini non riusciva più a prendere sonno. Questo è solo l’inizio, vedrai… Pensava alla sua vita spensierata, ai salotti letterari, alle cene eleganti , ma anche a sua moglie e ai suoi due ragazzi. Bisognava riflettere: non pubblicare il romanzo avrebbe significato perdere la stima e l’appoggio di Jean-Philippe, che ne aveva fatto un uomo pericoloso, ma proprio per questo rispettato e di successo; pubblicarlo, invece, sarebbe stato un invito in carta bollata per i terroristi. E che dire della propria famiglia? Avevano davvero meritato tutto questo?
Commissariato di Polizia del XX arrondissement. Sono lì, in fondo al lungo corridoio rivestito di marmo scuro. Malgrado la porta finestra, una luce tenue e fredda lo illumina. Seduto su una panca, la testa tra le mani, mi sento come se fossi in attesa del giudizio, sul banco degli imputati della mia stupidità. L’androne è quasi vuoto e le poche persone che mi passano davanti mi fissano con aria interrogativa. Visto che i miei pantaloni erano ancora umidi e macchiati di sangue, Katarzyna mi aveva prestato una delle sue gonne lunghe a fiori. Mentre aspettavo il mio turno per denunciare il furto (?) di tutti i miei averi e per fare una telefonata, riflettevo all’incidente della sera prima, alla mia notte in bianco e alla mia famiglia lontana che mi pareva più che mai irraggiungibile. Per un attimo ho avuto la sensazione che qualcosa fosse cambiato. Che non fossi più lo stesso. Un salto indietro nel tempo, un ritorno alla barbarie sentimentale, lontano dal focolaio domestico che mi ero costruito attorno per pigrizia – pensavo in quel momento – o per vigliaccheria. Le impalcature umane e razionali che avevo costruito con fatica erano state prese d’assalto, vittime innocenti di una carneficina improvvisa e brutale. Ed io, l’unico sopravvissuto.