Davide Predosin, “Un lavoro”

Il primo lavoro dopo la laurea, tanti anni fa, l’ho trovato tramite agenzia interinale: mi hanno assunto per sei mesi come magazziniere in un’azienda che si occupava dello stoccaggio e della spedizione di vestiti per bambini. Non ho mai visto nessun capo d’abbigliamento, solo colli, scatoloni numerati, divisi in partite che andavano smistate e accorpate in bancali ordinati, abbastanza stabili da poter essere prelevati dai muletti e caricati sui tir.
Il magazzino si trovava a Dosson, nei pressi del Terraglio, una strada che collega Mestre a Treviso; una strada alberata, signorile, famosa per le ville e le puttane.
Il magazzino era enorme, forse due chilometri quadrati. C’erano migliaia di scatoloni, impalcature metalliche per ospitarli su più piani, una decina di lavoratori interinali e qualche tempo indeterminato di lungo corso.
La maggior parte di loro parlava spingendo i suoni attraverso i denti; mandibola e labbra quasi a riposo. Un veneto gutturale: la lingua che rotola, mulina e vibra come un motore a scoppio, soprattutto sulle erre. A confronto, la proverbiale “erre di Marghera” è dolce e anglosassone.
Mi ricordo che uno di quelli più ruvidi veniva sempre a lavoro con una maglietta smanicata. Aveva un taglio di capelli un po’ trendy e si vantava di avere le ascelle depilate perché, diceva, “in discoteca ghe piase cussì ae tuse”.
Un altro era appena stato lasciato dalla ragazza. Aveva la testa un po’ grande, capelli  lunghetti dietro, unti, una cicatrice sul labbro superiore, e parlava sempre di “figa”.
Pur non avendo mai vissuto alcuna esperienza detentiva so che in quel magazzino era un po’ come essere in prigione e la misura di questa specie di stato coercitivo era il legame goliardico che si instaurava con i colleghi. Si tendeva a ridere per le cose più grevi e volgari; per disperazione, perché il tempo, così, passava più velocemente. Io avevo fatto amicizia con un ragazzo che stava finendo Filosofia, e con lui, soprattutto, ridevo per ore.
Non entrava mai la luce del sole, solo obliqua, dalle finestre in alto. Vedevi sul serio il sole  quando ti affacciavi di nascosto in un cortile erboso che non ricordo nemmeno a cosa servisse. Sbirciare oltre quella porta era un po’ come trovare un giardino giapponese nella prigione turca di “Fuga di Mezzanotte”. Del resto, qualsiasi cosa che non fosse marrone come gli scatoloni o grigia come le pareti dell’edificio, aveva lo stesso sapore che potrebbe avere una gelèe alla frutta dopo una cucchiaiata di merda.
Durante una delle nostre interminabili pause caffé, una volta era scesa una collega; una collega degli uffici al piano di sopra. Aveva i capelli rossi, e faceva a tutti, ogni volta, l’effetto di un’apparizione mariana. Il collega che parlava sempre “di figa” ne subiva particolarmente il fascino, faceva lo spiritoso, cercava di conquistarla.
Quella volta la rossa si era presa una lattina di coca-cola, aveva bevuto qualche sorso e, prima di tornare di sopra, l’aveva dimenticata su un gradino delle scale. Quando il collega che parlava sempre di figa ha visto la lattina lasciata incustodita è sbottato in un vigoroso dio can ed è corso a raccoglierla. Pensavamo volesse semplicemente finirla ma lui, come al solito, ci ha stupiti. Solennemente, come se tutti avessimo covato in segreto lo stesso desiderio, ha incominciato a leccare, mugugnando, il bordo della lattina della rossa, facendoci esplodere in una sonora risata gutturale.
Capitava di ridere parecchio soprattutto in mensa. A ripensarci adesso, il fatto che ci fosse una mensa in cui poter mangiare fino a scoppiare prima di riprendere a lavorare, era un lusso. Adesso capisco perché in certi film alcuni detenuti non vogliono più uscire anche quando hanno finito di scontare la pena. È difficile avere tre pasti completi assicurati. Si fa presto ad affezionarsi al carcere.
Altri due colleghi, indeterminati di lungo corso, stavano sempre insieme: erano amici, ed erano gli unici a guidare i muletti. Uno era piccolo, moro, spalle larghe, mascella americana, occhi azzurri. Un mini Big Jim che parlava gutturale ma sembrava proprio Big Jim. L’altro era enorme, rosso, più di cento chili. Credo bevesse almeno una decina di litri di the freddo al giorno. Grondava the freddo dall’alto del muletto e emanava un odore dolciastro di sudore alla pesca. Era molto pignolo, voleva componessi i bancali a suo gusto. Tentò di bulleggiarmi ma gli feci capire che ero più matto di lui, anche se ho capito subito che era meglio non tirare troppo la corda; che Mini Big-jim era piccolo ma Jabba The Hutt avrebbe potuto facilmente schiacciarmi con il muletto. Così ho cercato di ristabilire i rapporti e lui si è confidato: mi ha raccontato che quando poteva andava a puttane.
Big Jim aveva una famiglia che manteneva da solo, guidando il muletto. Era intelligente, lucido, scrupoloso, penso che l’avrei assunto anch’io. Anche Jabba the Hutt, tutto sommato, non era male.
C’era anche un direttore, un iracondo che non si vedeva mai. Quando urlava riempiva due chilometri cubi di magazzino. Dicevano che avesse una moto molto potente, che ci teneva e che una volta era entrato in moto nel magazzino per farla vedere a tutti. Non mi ricordo che moto era, non me ne intendo. Mi ricordo che lui, il direttore, portava polo Lacoste col colletto alzato, inamidato. Era rasato, forse leghista; quel tipo lì del nord est che non ti sbagli.
Marginali e in posizione gerarchica e contrattuale ambigua, c’erano anche i cosiddetti “manutentori”. Dovevano intervenire quando c’era qualcosa da riparare. Quello con le ascelle depilate, anche lui indeterminato di lungo corso, per quanto giovanissimo, diceva che non facevano un cazzo. “I s-ciceta un fià col cacciavite, ma no i fa un casso tutto il giorno, dio can”. S-ciceta è un termine quasi onomatopeico che mi è rimasto impresso. Si legge separando la s dalla c, pronunciandole come fosse polacco e significa… s-ciceta, ovvero avvitare e svitare un po’ a caso. I manutentori giravano mesti, silenziosi e sporchi di grasso con un carrello carico di attrezzi, viti, bulloni, rondelle ma non li ho mai visti fare niente più che aggirarsi mesti, silenziosi e sporchi di grasso alla ricerca di qualcosa di rotto da riparare.
Ricordo anche un altro collega, uno che non parlava gutturale. Era alto, capelli corti, si occupava di smistare i colli direttamente dal tapis roulant. Era l’addetto al tapis roulant. Aveva abbandonato scienze politiche e incominciato a lavorare nel magazzino diversi anni prima. Diceva che era un buon lavoro, sicuro, ben pagato. Tanto laurearsi non serviva, e lui, la sua vita, se la faceva lo stesso. Era appassionato di musica. Simpatico, aperto, senza grilli per la testa. Avrebbe meritato di più. Ma quasi tutti, là dentro, forse, avrebbero meritato di più.
Oltre a qualche altro ragazzino, non ricordo gli altri colleghi. A parte il Mago di Caserta, un campano che, per arrotondare lo stipendio, la sera teneva una trasmissione in un’emittente locale in cui prediceva il futuro ai telespettatori che chiamavano da casa.
Ricordo la sensazione di  benessere durante e dopo pausa pranzo. Il bivacco seduti contro il muro a fumare; stanchi, sazi, all’ombra; che quell’estate faceva veramente caldo.
Mi ricordo che una volta, con il collega filosofo, dopo lavoro, alle sei che staccavamo, siamo andati in macchina a Cortellazzo, al mare. Mi ricordo che il tempo di arrivare già pioveva, mi ricordo che ci siamo buttati in acqua lo stesso, che abbiamo finto di prendere un sole che non c’era.
Anche quella giornata al mare, come il giardino giapponese nella prigione turca, era una cosa senza prezzo. La sera siamo anche andati a Jesolo ma quello non è stato un granché, Jesolo fa un po’ schifo.

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