Jack Black, “Non c’è scampo”

UNO

Adesso sono bibliotecario al “San Francisco Cali”.
Ne ho l’aria? Giro la sedia per guardarmi allo specchio. Non ve­do la faccia di un bibliotecario. Niente fronte liscia, bianca, ampia; non vedo l’espressione calma, placida, composta dello studioso. La fronte che vedo è abbastanza alta, ma segnata da solchi come cica­trici di coltello. Tra gli occhi ci sono due rughe verticali che mi ren­dono perennemente accigliato: gli occhi sono abbastanza separati, non piccoli, ma duri, freddi, calcolatori. Sono azzurri, ma della sfu­matura più distante possibile dal violetto.
Il naso non è lungo, né affilato. Eppure è un naso inquisitorio. La bocca è larga, con un angolo più alto dell’altro e sembra sem­pre sghignazzare. Non sono accigliato, non sghignazzo, però c’è qualcosa nella mia faccia che spinge uomini e donne a esitare pri­ma di chiedermi la strada per la chiesa del dottor Gordon. Non ri­cordo una sola volta in cui una donna, giovane o vecchia, mi abbia fermato in strada per avere indicazioni. Magari ogni tanto un ubriaco barcolla fino a dove sono io per chiedere biascicando co­me arrivare all’incrocio tra la Ventinovesima e la Mission.
Se fisso lo specchio abbastanza a lungo e mi concentro, posso immaginare un’altra faccia. La vecchia sembra dissolversi e al suo posto vedo quella di un ragazzino: allegra, serena, innocente. Vedo un ciuffo di capelli bianchi, un paio di occhi azzurri e un naso in­quisitorio. Mi vedo in piedi sulla scalinata del collegio di suore. All’età di quattordici anni, dopo tre di convitto, sto per tornare a casa da mio padre per poi andare in un’altra scuola, da “grandi”.
La mia insegnante, una suora dolce e gentile, una madonna, mi tiene la mano. Piange. Devo scappare o mi metterò a piangere anch’io. La madre superiora mi saluta. Stringe così tanto le labbra sottili che riesco appena a scorgere la linea in cui si congiungono. Mi guarda intensamente negli occhi e io mi chiedo cosa stia per dirmi quando lo scricchiolio della ghiaia ci avverte che la vecchia carrozza è pronta e io devo andare. La madre prende gentilmente la mia insegnante per mano. Le vedo varcare la grande porta e scomparire in silenzio nel lungo corridoio buio.
Tutti i ragazzi della scuola, e ce n’erano cinquanta, si erano messi in fila per rivolgermi un chiassoso saluto. Schioccando la lin­gua, il vecchio vetturino aveva fatto un cenno ai cavalli e io ero in cammino verso il treno. E verso il mondo.
Ogni lettore con un pizzico di immaginazione può figurarsi il mio ritorno a casa, l’iscrizione in altre scuole e infine un lavoro da impiegato; una promozione qua e là, mentre conduco una vita di studi ordinata e tranquilla, che mi porta fino alla posizione, rispet­tabile e regolare, di bibliotecario di un giornale metropolitano. Co­sì sarebbe dovuta andare, ma così non andò.
Se tracciata su un pezzo di carta, la strada che ho seguito da quella scuola di suore alla scrivania di bibliotecario sembrerebbe una di quelle linee a zigzag che gli statistici usano per mostrare i picchi e le cadute della temperatura o delle piogge o le fluttuazio­ni del mercato. Ogni mia svolta è stata netta, improvvisa; negli an­ni non ricordo di averne compiute di facili o graduali.
Mi sono sempre chiesto quanto vantaggio abbia un ragazzo che ha la madre accanto fino a quando impara a camminare sulle pro­prie gambe; che può vivere in una casa ed esserne influenzato fino a quando non si crea una sorta di filosofia di vita utile ad affronta­re il mondo. Niente può sostituire una casa e una madre.
Per l’uomo medio può non significare molto un amico che di­ce: “John, ti presento mia madre”, ma per me significa più di quanto non riesca a mettere sulla carta. Mi sembra che spieghi per­ché colui che con orgoglio dice: “Questa è mia madre” sia così tan­te cose che io non sono e non potrò mai essere. Gli agenti delle as­sicurazioni non sono ancora arrivati al punto da offrire polizze contro una vita di fallimenti, ma se dovessero farlo, immagino che il cliente capace di garantire che avrà la madre con sé fino a quan­do compirà i vent’anni otterrà un piccolo vantaggio al momento di pagare il premio.
Non sto tirando in ballo il fatto che rimasi orfano di madre al­l’età di dieci anni come alibi per qualcosa, ma penso che tutti ab­biamo il diritto di chiederci se le cose non sarebbero potute anda­re diversamente. Mia madre morì prima che potessi conoscerla bene dato che non credo esistano bambini che si interessano ai ge­nitori prima dei dodici o tredici anni.
Probabilmente pensavo che mia madre fosse una persona mes­sa al mondo per pulirmi la faccia e il collo e per prendersi urli e calci; per mettermi ruvide pezze di flanella imbevute di grasso puz­zolente attorno al collo quando avevo la laringite e per starsene ac­canto al letto e tenermi sotto le coperte quando avevo il morbillo. Ricordo perfettamente come mi arrabbiai quando mi portò uno spazzolino da denti e mi mostrò cosa farne.
Fu l’affronto peggiore, la goccia che fece traboccare il vaso. Buttai via quella cosa rifiutandomi di usarla; le dissi letteralmente che non ero “una femminuccia” e che mai avrei usato roba “da femminuccia”. Lei non si arrabbiò né mi disse nulla, ma continuò il suo lavoro, sorridendo, forse divertita dal mio sfogo da vero uo­mo. Non so.
Non ricordo di essere stato scosso o addolorato quando morì. Piansi, perché era quello che tutti si aspettavano da me. Piangeva­no i parenti della mamma, un paio di sorelle che non avevo mai vi­sto prima e non avrei mai più rivisto. Vidi le lacrime negli occhi di mio padre. Così cercai di piangere e ce la feci. So che mio padre si rendeva conto di quanto avevamo perso e il suo lutto era sincero, ma io allora non riuscivo a sentirlo.
Qualche giorno dopo papà vendette la nostra casetta e i mobi­li e ci trasferimmo nell’unico albergo della cittadina. Le scuole per i bambini poveri erano rarissime allora. Io giocavo intorno all’al­bergo per tutto il giorno fino a che papà non tornava dal lavoro. Cenava, leggeva un giornale e mi metteva a letto. Dopodiché leg­geva un libro per circa un’ora e andava a letto anche lui. Vivemmo così per quasi un anno. Alcune notti riponeva il libro e mi guarda­va in modo strano, talvolta anche per minuti interi. Ero indubbia­mente un problema e stava cercando di decidere cosa fare di me. Un ragazzino di dieci anni senza madre è un bel dilemma per un padre, e mio padre era un uomo riflessivo.
Ripensandoci, mi sembra di essere stato spinto qua e là proprio come una foglia secca in balia dei venti autunnali fino a quando non trova una sistemazione in qualche angolo ben protetto. Quando la­sciai la scuola a quattordici anni non potevo essere più ingenuo; del mondo e dei suoi bizzarri giri non sapevo nulla più di quella santa donna che mi aveva insegnato le preghiere in convento.
Prima del mio ventesimo compleanno ero sul banco degli im­putati, in un processo per furto con scasso. Venni assolto, ma quel­la è un’altra storia. In sei anni avevo abbandonato mio padre e la casa e avevo scelto la strada. Ero diventato un pivello di poco con­to, un ladruncolo buono per i registratori di cassa, un delinquentello che scassinava porte, un saccheggiatore di modeste pensioni ma, in definitiva, uno scassinatore dalla promettente carriera.
A venticinque anni ero un topo d’appartamenti esperto, un pre­done notturno che sceglieva con cura solo le case migliori, quelle di gente benestante, imprudente, assicurata. Le “facevo” in piena not­te, sempre in assetto da battaglia.
A trent’anni ero un rispettato membro della confraternita cri­minale, un ladro di cui si sa poco. Silenzioso, reticente, cauto; sem­pre in viaggio, un “lavoratore” notturno. Uno che sfugge le luci in­tense, che si allontana di rado dal proprio ambiente, che non emerge mai in superficie. Un criminale che, andando in giro con l’automatica sempre pronta, domina il mondo sotterraneo della malavita. A quarant’anni ero ormai un bandito a giornata abile e solitario; un detenuto fuggiasco, un evaso con un passato di venti­cinque anni nell’universo della criminalità.
Un passato desolato! Pieno di rapine, furti e ruberie troppo nu­merose per essere ricordate. Tutti i tipi di crimini contro la proprie­tà; arresti, processi, proscioglimenti, condanne, fughe. Penitenziari! Ne vedo quattro alle mie spalle. Prigioni di contea, riformatori, car­ceri cittadine, caserme della polizia canadese, celle sotterranee, d’isolamento, pane e acqua, sospensioni, brutali fustigazioni e la mi­cidiale camicia di forza.
Vedo fumerie, stamberghe, passatempi da ladri e ritrovi di va­gabondi.
Il crimine subito seguito da un castigo in questa o quella forma.
Mi concessi pochi bicchieri di vino nel percorrere questa stra­da. Di rado vidi una donna sorridere o ascoltai una canzone.
In quei venticinque anni vissi tutte queste cose, e ora ho inten­zione di scriverne.
E ho intenzione di farlo così come le vissi: con un sorriso.

DUE

Per mio padre ero un problema; mentre lui era al lavoro, passavo tutto il giorno a scorrazzare nei dintorni dell’albergo fino a quan­do mi portò in una scuola cattolica distante un centinaio di chilo­metri. Durante quel breve viaggio diventammo buoni amici e tra noi si creò un’intimità che non credo raggiungemmo mai più. La sera se ne andò e mi disse di fare il bravo, dar retta alle suore e dar­mi da fare con lo studio.
Mi sentii subito a mio agio in quella scuola, con gli altri ragazzi della mia età. Le giornate passavano tranquille tra modesti studi, molte preghiere e la messa. Il cibo era scadente ma sano.
Non tornavo mai a casa per le vacanze. Trascorrevo le giornate esplorando i frutteti vicini, i giardini e i campi, raccogliendo frut­ta, verdura, bacche e altre cose che contribuivano ad arginare l’ap­petito di un ragazzino.
Passavo molto tempo intorno alle rimesse e alle stalle insieme a Thomas, il vetturino. Io ero bravo ad ascoltare, qualità rara che di certo avevo ereditato da mio padre, mentre Thomas era un gran chiacchierone. La nostra era una combinazione che assicura sem­pre una solida e duratura amicizia, e noi diventammo buoni ami­ci. Lui era un veterano della Guerra civile, era stato dalla parte dei perdenti e ne era uscito pieno di odio, piombo e reumatismi. I suoi eroi non erano Lee o “Stonewall” Jackson, ma Quantrill, i guerri­glieri, Jesse e Frank James, Cole e Bob Younger.
Non ero mai stanco di ascoltare le sue storie di guerra e spesso mi accorgevo di ripeterle in classe tra me e me, quando avrei inve­ce dovuto impegnarmi con lo studio.
Credo che fossi l’unico ragazzo della scuola che per le vacanze non andava mai a trovare genitori o parenti. La superiora, forse ac­corgendosi che la mia vita era un po’ troppo grigia, mi concedeva spesso il privilegio di andare al villaggio per la posta e i giornali. Era una gioia rara e ambita da tutti i ragazzi perché voleva dire una lun­ga camminata, una passeggiata per le strade del villaggio, l’occasio­ne di vedere gente e magari di comprarsi un grosso panino, un sac­chetto di noccioline o una bottiglia di gazzosa: le piccole cose della vita di un ragazzo. Ma voleva anche dire autorità e responsabilità, cose buone. Non vedevo l’ora di fare uno di quei viaggi e avevo sem­pre da spendere una monetina d’argento mandata da mio padre.
Il tempo passava in fretta e piuttosto piacevolmente. Imparai molte preghiere, mi esercitai nel canto con il coro della chiesa e di­venni un chierichetto che serviva messa all’altare. Mi piaceva co­noscere le preghiere e le risposte da dare al prete in latino, ma per il resto non facevo grandi progressi negli studi.
Amavo il caro, umile, vecchio prete a cui feci la mia prima con­fessione, e talvolta pensavo che anche a me un giorno sarebbe pia­ciuto diventare prete. Dentro di me ero combattuto tra l’ammira­zione per Thomas, il vetturino, con le sue appassionate storie di guerra, e l’amore per il mio prete, e non sapevo se diventare un sa­cerdote come lui o un soldato come Tommy, che andava in giro zoppicando con una gamba più corta dell’altra e dolorante.
Un giorno, mentre aspettavo la posta, sentii un’anziana signora chiedere al direttore dell’ufficio postale di chi fossi figlio.
Lui rispose: «È uno dei ragazzi del convento. Li riconosci lonta­no un miglio. Sono tutti piccoli gentiluomini beneducati. Dicono “per piacere” e “grazie”. Non so come facciano le suore, ma di sicu­ro li sanno tirar su i ragazzi. Vorrei essere così bravo con i miei».
Quando tornai con la posta raccontai alla superiora quello che avevo sentito dire al direttore dell’ufficio postale su di lei e i suoi ragazzi. Lei sembrò molto contenta, sorrise e disse: «I ragazzi so­no bravi quando imparano a dire le preghiere e a temere Dio».
Poco tempo dopo fui nominato “postino”. Andavo al villaggio tut­ti i giorni dopo la scuola. Quando faceva bello andavo a piedi; se era brutto, salivo in carrozza con Tommy. Quella fu la prima e unica “nomina” della mia vita. Allora non ci pensavo, ma adesso so che non la ricevetti perché dicevo “per piacere” o ripetevo le preghiere, la ricevetti perché avevo riferito alla superiora le cose carine dette dal direttore dell’ufficio postale. “Per piacere” è una buona parola di per sé, ma non fa ottenere nessuna nomina. È adatta al vocabolario di un ragazzino. Ed è molto usata anche da un certo tipo di prigionieri e postulanti che cercano continuamen­te di compiacere tutti, ma che non piacciono mai a nessuno.
Il bravo mendicante di strada non dice “per piacere”. Sfodera il suo imbonimento con un linguaggio talmente rigoroso e preciso che ottiene i vostri dieci centesimi senza bisogno di dirlo. Voi re­state talmente ammirati dalla sua “arte” che neppure sentite la mancanza del “per piacere”. La sua è arte. Lui omette il “per pia­cere” perché sa che voi lo usate solo quando volete la senape.
Ripensandoci, mi sembra che la nostra vita al convento non fos­se poi così ben equilibrata. Non avevamo nemmeno uno di quei mo­menti di chiasso e allegria così cari a un ragazzino: niente nuotate, partite di baseball o football. Eravamo un po’ troppo in clausura, troppo tranquilli, troppo frenati. Non c’erano lotte, pugni, corse, salti, bisticci, piedi strascicati o spallate. Naturalmente imparai tutte queste cose dopo, ma le imparai in fretta, troppo in fretta e tutte in una volta. Anche questo non fu equilibrato. Quegli esercizi avreb­bero dovuto essere mescolati agli studi e alle preghiere.
In un giorno di tempesta uscii dall’ufficio postale e, come sem­pre, diedi il giornale a Tommy che aveva l’abitudine di dare un’oc­chiata ai titoli e poi restituirmelo. Quel giorno, però, trovò qualcosa che lo interessava. Si mise le briglie tra le ginocchia e ci incrociò so­pra le gambe. Mi sedetti accanto a lui sulla cassetta, tremando per il vento. Lui continuò a leggere riga dopo riga, poi andò alla pagina in­terna, combattendo contro l’aria che gli piegava il giornale.
Alla fine, dopo circa un’ora, lo ripiegò con cura e me lo restituì. «Buone notizie, oggi, Tommy?» «No, ragazzo, nessuna buona noti­zia. Notizie cattive, pessime, spaventose.» Parlava con una voce sgo­menta, una voce che esprimeva riverenza. «Notizie terribili; Jesse James è stato assassinato, a sangue freddo e da un traditore.»
Tacque e per quel giorno non parlò più. In seguito mi raccontò molte cose su Jesse James. Lo adorava e come molta altra brava gen­te del Missouri credeva con assoluta certezza che nessuno dei James avesse mai sparato un colpo se non in difesa dei propri diritti.
Consegnai la posta e corsi a raccontare agli altri che Jesse James era morto, “assassinato”. Molti dei più grandi sapevano tutto di lui – era anche il loro eroe – e le cose che mi raccontarono mi spinse­ro a prendere il giornale e leggere la storia per conto mio. Il gior­no dopo, cosa insolita, passai davanti all’ufficio della superiora mentre lei era fuori a pranzo. Il giornale era piegato e ordinatamente appoggiato su un pila di giornali più vecchi in un angolo della scrivania. Entrai e lo presi. Lo misi via con cura, ma passa­rono diversi giorni prima che lo leggessi. Ero così impegnato con i compiti di chierichetto e così occupato a prepararmi alla prima comunione e imparare nuove preghiere che i James e tutte le al­tre cose di questo mondo non trovavano posto nei miei pensieri.
Erano giorni intensi quelli. Vivevo in un altro mondo.
Alla fine trovai il tempo di leggere il giornale. Mentre andavo alla posta, con calma riesumai la vicenda della vita e della morte di Jesse James, parola per parola. Quanto studiai la storia di quell’eroe con la barba e ben due pistole! E lo stesso feci con i disegni del suo omicidio e della casa in cui si era consumato. Poi c’era la storia della sua povera madre a cui era stato sottratto il fi­glio. Oh, quanta simpatia provavo per lei, che piangeva per la per­dita del figlio e raccontava della vita di persecuzioni dei suoi Jesse e Frank, e di come temeva per il fuggitivo braccato, Frank, ugual­mente in pericolo a causa del solito traditore! Come detestai colui che aveva tradito: Bob Ford, uno della banda dei James, che sparò a Jesse alle spalle per incassare una ricompensa! E come gioii nel leggere che quel Ford venne quasi linciato dagli amici e dagli am­miratori di Jesse e dovette essere rinchiuso nella prigione più sicu­ra dello Stato per essere protetto dalla vendetta. Dopo aver termi­nato l’articolo, la mia totale e incondizionata simpatia andava ai James e a tutti gli altri uomini ricercati, messi al bando, oltraggiati.
Quando ebbi finito con il giornale lo diedi agli altri ragazzi che lo lessero e se lo passarono fino a che non venne intercettato dalla superiora. Era lacero e a brandelli per l’uso. La superiora risalì im­mediatamente a me e quando mi chiese come l’avessi avuto, le dissi che lo avevo preso dalla sua scrivania. Mi fu impartita una severa predica su quanto fosse sbagliato prendere le cose senza chiedere il permesso. Le dissi che non l’avevo chiesto per timore che rifiutasse di darmelo. Lei non disse nulla, né si offrì di farmene avere altri, e così capii che noi non dovevamo avere giornali. Fui anche sollevato dall’incarico di postino. Non meritavo più fiducia.
La mia insegnante seppe di questa vergogna. Mi portò nel suo studio e parlammo della cosa. La perdita dell’incarico non era nul­la; presto sarei comunque andato a casa. Non dovevo soffrire per la sgridata, non avevo fatto nulla di sbagliato. Quel giornale lo avrei restituito, solo che anche gli altri ragazzi volevano leggerlo. Scoprii che l’insegnante la pensava come me.
Mi chiese se volevo altri giornali. Morivo dalla voglia di legger­li e glielo dissi. Promise di procurarmene uno al giorno e lo fece. Dopo averlo letto, glielo riportavo.
La storia dei ragazzi James andò avanti giorni e io la seguii per intero, simpatizzando per Frank, il fuggitivo, sognando di essere abbastanza grande e forte da riuscire a trovarlo, aiutarlo a scappa­re dagli inseguitori e vendicare la morte del fratello.
Quando la storia si concluse mi dedicai al resto della cronaca ne­ra e non leggevo altro: furti, rapine, omicidi, divoravo tutto, sempre dalla parte dei coraggiosi e avventurosi criminali. Ricostruivo i loro delitti nella mia mente di ragazzo e spesso immaginavo di parteci­parvi. Misi da parte studi e preghiere per fantasticare su eroi come Jimmy Hope, Max Shinburn e Piano Charlie, il famoso “uomo tar­taruga”, così chiamato perché scavava tunnel sotto le banche e por­tava via il bottino dopo mesi di pericoloso lavoro.
Ripensandoci adesso mi è chiaro quanto i James e altri perso­naggi simili abbiano influenzato i miei pensieri spingendomi verso l’avventura e, in seguito, verso il crimine.
TRE

Dato che avevo compiuto quattordici anni ed ero troppo grande per rimanere alla scuola delle suore, arrivò per me il giorno di tor­nare a casa.
Avrei voluto salutare la mia insegnante preferita con un bacio, ma non osai farlo. Così andai fino alla stazione sulla carrozza di Tommy, che mi comprò un coltello da cinquanta centesimi con i soldi del suo salario, appena dodici dollari al mese, e tornai da mio padre.
Lui mi portò allo stesso albergo e nella stessa stanza. Aveva dor­mito lì nei tre anni in cui ero stato via e l’unico cambiamento che fece fu quello di metterci un lettino per me. Ogni cosa mi appariva nuova e inusuale. Uomini che andavano e venivano a ogni ora del giorno e si fermavano a bere e mangiare. Tutto era rumore e tram­busto, e mi ci volle del tempo per abituarmi a quella nuova vita.
Trovai molti giornali in giro, romanzi in edizione economica, “Police Gazettes”, ecc. e li lessi tutti; leggevo tutto quello su cui riuscivo a mettere le mani. Vedevo mio padre solo la sera, e di tan­to in tanto andavamo a fare due passi.
Un giorno, mentre tornavamo dalla passeggiata, incontrammo un uomo il cui tiro di cavalli era rimasto impantanato in una poz­zanghera di fango. Stava battendo le bestie, maledicendole con le più spaventose imprecazioni. Mi fermai e mi misi a pregare per lui. Mio padre si girò, vide che me ne stavo immobile e disse: «Cosa fai, John, ascolti le bestemmie di quel carrettiere?».
Terminai la preghiera e lo raggiunsi.
«Imparerai a bestemmiare abbastanza in fretta senza che ti fer­mi ad ascoltare quel vetturino» disse un po’ severamente.

traduzione di Federica Angelini

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